Salviamo la natura: altrimenti la terra sopravviverà, ma senza di noi
L’accordo sul clima di Parigi è stato accolto con valutazioni estremamente diversificate, qualcuno lo esalta come successo epocale, altri lo giudicano una truffa priva di contenuti. Si dichiara “moderatamente ottimista” e vede il bicchiere mezzo pieno Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia, con oltre quarant’anni di esperienza in ricerca e divulgazione su tematiche ambientali. Infatti, se “ogni opinione è lecita, specie se arriva da personalità che da anni si occupano di ambiente e cambiamenti climatici” sostiene, “vi sono indubbi aspetti positivi, a partire dal fatto che per la prima volta nella storia 195 nazioni hanno sottoscritto unanimemente un documento in cui riconoscono l’obbligo e l’urgenza di intervenire contro il surriscaldamento globale”. Finalmente si è messo nero su bianco qualcosa che il buon senso aveva già suggerito da tempo: non si può perseguire una crescita continua e illimitata in un sistema come il pianeta Terra, ove le risorse a disposizione sono comunque circoscritte. Una presa d’atto destinata ad avere conseguenze ben oltre l’ambito ecologico, interessando anche quello economico e sociale. Solo l’utilizzo intensivo e insostenibile delle riserve fossili ci ha dato l’illusione di poter superare i limiti fisici del pianeta e la sensazione di poter proseguire indefinitamente su questa strada, ma con un costo altissimo in termini di gravi squilibri ambientali, ora è chiaro che non si può più procedere in questo modo.
Per la verità se ne erano già accorti in molti, non solo gli ambientalisti, ma anche il mondo dell’imprenditoria, da anni impegnato verso l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, la mobilità sostenibile, le abitazioni a basso impatto ambientale, eccetera. Come spesso succede la politica arriva per ultima, “prendendo finalmente atto – prosegue Bologna – di queste iniziative dal basso e decretando nel contempo la fine dell’era dei combustibili fossili”. Certo, se pensiamo che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (che portò al successivo protocollo di Kyoto) fu siglata nel Summit della Terra a Rio de Janeiro nel 1992, e dopo la sua ratifica ebbe luogo la Cop 1, ci si rende conto che sono trascorsi oltre vent’anni che avrebbero potuto essere spesi meglio, intervenendo prima, senza perdere tempo prezioso durante il quale il problema non ha fatto altro che aggravarsi. Oggi l’articolo 2 del trattato di Parigi, firmato da tutti (le Nazioni europee hanno siglato sia come UE che singolarmente) stabilisce inderogabilmente che l’aumento della temperatura «dovrà essere ben al di sotto dei due gradi rispetto all’era preindustriale e l’azione dovrà essere proseguita per limitarla a 1,5 gradi».
Tuttavia, non mancano le criticità, come sottolinea ancora Bologna: “le attuali INDC (Intended Nationally Determined Contribution, le azioni che si intende intraprendere) presentate da circa 180 Paesi lasciano prevedere un aumento ben superiore, intorno a 2,7° centigradi. Inoltre, non vengono indicate le riduzioni percentuali di emissioni di gas serra da ottenere entro il 2030 e il 2050. Soprattutto, manca la previsione di sanzioni in caso di inadempienza, perché l’ONU non scavalca la sovranità delle singole nazioni, anche se su questioni di portata globale sarebbe ormai il caso di rivedere questo modus operandi non più adeguato ai problemi da affrontare. Tuttavia, come stabilito già nella Conferenza di Durban, l’accordo dovrà essere verificato nel 2018, per vedere se è in linea con l’andamento della situazione, prima di diventare legale nel 2020”
Nell’accordo finale manca anche la previsione di abbandono delle fonti fossili in favore delle rinnovabili, sostituita dalla prospettiva di equilibrio fra emissioni antropiche e riassorbimento naturale, un approccio che lo stesso Bologna giudica con forte perplessità: “nessuno si aspettava realisticamente una transizione totale verso le energie rinnovabili prima del 2100, anche se molti studi, compreso quello del Wwf, la ritengono possibile entro il 2050. Certo, permangono molti dubbi sulle capacità di assorbimento delle emissioni antropiche da parte dei cosiddetti sink (scarichi) biologici, perché sono già molto in sofferenza. Durante l’estate del 2003, quella contraddistinta dalla più lunga e persistente ondata di caldo degli ultimi secoli, molti studi hanno dimostrato come le foreste europee, sottoposte a tale stress, hanno smesso di assorbire anidride carbonica (Co2), e hanno iniziato a riemetterla. Anche gli oceani, vasti serbatoi di accumulo, presentano criticità a causa della progressiva acidificazione: la Co2 si trasforma infatti in acido carbonico, che scioglie i coralli e le conchiglie. E le foreste tropicali sono soggette a una deforestazione sfrenata, che non si riesce a bloccare e nemmeno a rallentare, con un degrado rilevato ovunque, in particolare dall’Agenzia Spaziale brasiliana, un processo che non sembra possibile invertire nel breve periodo. L’unica soluzione dunque è ridurre le emissioni di Co2, il che segna il fatale declino delle fonti fossili”.
Una soluzione obbligata, che tuttavia incontra forti resistenze, a causa degli enormi interessi in ballo, da parte delle lobby petrolifere, che hanno anche trovato la “sponda” di una parte residuale della comunità scientifica, tuttora arroccata su posizioni “negazioniste”. Un atteggiamento che Bologna stigmatizza: “oltre alla comunità scientifica, anche le Agenzie preposte alla sicurezza nazionale hanno evidenziato il rischio catastrofico dei cambiamenti climatici, i “negazionisti” sono un drappello sparuto che nega l’evidenza. Siamo ormai ufficialmente in una nuova era geologica, l’Antropocene, nella quale l’uomo produce impatti sul pianeta pari a quelli dei miliardi di anni precedenti, e rischia di innescare una nuova estinzione di massa, come quella dei dinosauri di 65 milioni di anni fa. La svolta ambientalista è ineludibile, salvare la natura equivale a salvare l’Uomo”. Altrimenti, la Terra sopravviverà comunque, ma senza di noi.
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