OGM, Gene-editing, Mas, il labirinto del biotech

 

Secondo un sondaggio commissionato da Coldiretti, tre italiani su quattro sono contrari all’utilizzo di organismi geneticamente modificati (OGM) in agricoltura e, naturalmente, per l’alimentazione. La percentuale scende, ma rimane significativamente elevata, anche nel resto d’Europa. Ciononostante, vi sono attualmente 58 alimenti e mangimi geneticamente modificati autorizzati nell’UE.

Raramente troviamo questi prodotti alimentari nei banchi dei supermercati, perché i produttori sanno che l’obbligo di etichettatura allontana la maggioranza dei consumatori. Ma la situazione è profondamente diversa per quanto riguarda i mangimi, visto che circa il 60% del fabbisogno dell’alimentazione dei bovini nell’UE viene soddisfatto con l’impiego di soia proveniente da paesi dove le coltivazioni OGM sono la prassi per la produzione agricola industriale destinata all’esportazione. Ne consegue che già oggi gli OGM arrivano sulle nostre tavole attraverso la catena alimentare, quando senza saperlo e senza poterlo scegliere consumiamo carne di animali allevati con questi mangimi. Per i favorevoli, è la prova del principio di “sostanziale equivalenza”, cioè del fatto che gli OGM non presentano controindicazioni al consumo. Ma per chi si oppone alla loro introduzione, sulla base del principio di precauzione o per altre considerazioni di ordine etico, economico e ambientale, è la riprova della necessità di una normativa più stringente, che ne limiti l’uso o, perlomeno, preveda per le carni allevate con mangimi OGM l’etichettatura obbligatoria, anziché volontaria com’è oggi, in modo da consentire ai consumatori di scegliere in maniera consapevole cosa mettere nel piatto. Sarebbe una scelta di correttezza e trasparenza, che consentirebbe, come dicono i sostenitori del libero mercato, una “autoregolamentazione” basata sulle scelte dei consumatori, anziché sulle convinzioni dei produttori.

Ma quando ci sono in gioco interessi economici enormi, in genere si scopre che i sostenitori del “libero mercato” sono molto più attenti al mercato, che non alla libera scelta dei cittadini. Tanto da incidere, con pressanti azioni di lobby, sugli stessi processi decisionali dell’Unione Europea: infatti, finora i comitati chiamati a decidere sull’introduzione degli OGM hanno sempre dato come responso “Nessun parere”, rimettendo la decisione nelle mani della Commissione europea, caso unico fra le numerose procedure legislative dell’UE. Rimane tuttavia un certo margine di discrezionalità per gli Stati membri, che possono limitare o proibire la coltivazione di OGM autorizzati dalla Commissione stessa. È esattamente ciò che ha fatto l’Italia a ottobre dell’anno scorso, escludendo la possibilità di coltivazione sull’intero territorio nazionale per tutti gli OGM approvati in sede comunitaria.

Solo che ora ciò che è stato messo fuori dalla porta rischia di rientrare dalla finestra, attraverso la pratica del “gene-editing”, di cui l’Italia è sostenitrice. Di cosa si tratta? In sostanza, di tecniche che permettono la modifica diretta del materiale genetico delle piante, tramite l’utilizzo di enzimi chiamati “forbici molecolari”, che recidono il Dna in punti specifici. Una tecnica certamente più precisa rispetto all’ingegneria genetica tradizionale, ma in ogni caso da effettuare in laboratorio e che comunque potrebbe portare a effetti indesiderati, con conseguenze imprevedibili su alimenti, mangimi e ambiente. Infatti, anche se questa tecnica consente di alterare solo piccole porzioni di Dna, non si possono escludere i cosiddetti “off-target effects”, cioè alterazioni del genoma anche al di fuori dell’obiettivo su cui si intendeva operare. In ogni caso le modifiche possono generare conseguenze indesiderate in termini di produzione di proteine e flussi metabolici. Tutto ciò fa rientrare gli organismi ottenuti in questo modo nella categoria OGM, con le relative conseguenze in termini di controlli ed etichettature, e non sarebbe opportuna la loro esclusione da questo ambito. Invece, l’intento delle lobby pro-OGM è di fare in modo che questi organismi geneticamente modificati vengano esclusi dalla normali procedure di controllo dell’UE, e che a maggior ragione per essi non sussista alcun obbligo di etichettatura. Una presa di posizione che pare godere dell’implicito avallo dello stesso Ministero delle Politiche Agricole, che in un comunicato annuncia di aver stanziato 21 milioni di euro per il finanziamento del “più importante progetto di ricerca pubblica fatto nel nostro Paese su una frontiera centrale come il miglioramento genetico attraverso biotecnologie sostenibili”. Una cifra considerevole, per un Paese che in genere taglia i fondi per la ricerca e mostra scarsa attenzione per le problematiche agricole. E suscita più di un dubbio l’utilizzo dell’aggettivo “sostenibili”, spesso utilizzato in maniera spregiudicata quando si vuole sponsorizzare qualcosa di estremamente lucroso, ma potenzialmente osteggiato dall’opinione pubblica.

Non sembri una sottigliezza: l’utilizzo di determinate parole è prassi comune per condizionare il pensiero collettivo. Per fare un esempio restando in campo ambientale, basti pensare alla sostituzione del termine “inceneritore” con quello di “termovalorizzatore”: nella sostanza non cambia nulla, si tratta sempre di bruciare rifiuti producendo fumo e calore (e grazie a quest’ultimo anche energia elettrica), ma nel secondo caso viene evidenziato il “valore” di questo parziale recupero energetico, e si tende a occultare il fatto che tale operazione produce ovviamente montagne di cenere, circa un terzo rispetto alla massa iniziale, che poi a loro volta diventano un rifiuto non recuperabile, da smaltire in discariche apposite. Ma basta cambiare una parolina, e il gioco è fatto: l’opinione pubblica si dimentica di cenere e discariche, e pensa solo ai vantaggi di un’energia che nel nostro Paese, in maniera perlomeno discutibile per non dire ingannevole, viene anche definita “rinnovabile”, cosa che di fatto non è. Allo stesso modo, questi OGM “sostenibili” restano pur sempre organismi geneticamente modificati, prodotti “in vitro”, cioè in laboratorio e con tecniche di ingegneria genetica, pertanto devono sottostare a normative specifiche.

Ben diverso il discorso per i normali incroci “in vivo”, da sempre applicati nell’agricoltura tradizionale con innesti sulle piante e selezione delle varietà più promettenti sul campo, una pratica che oggi può godere di una marcia in più proprio grazie all’appoggio della scienza, che in questo caso affianca il sapere contadino anziché tentare di soppiantarlo imponendo prodotti brevettati in laboratorio. Si tratta della tecnica nota come “Selezione Assistita da Marcatori (Mas)”, che consente di velocizzare gli incroci e inviare alla coltivazione direttamente gli ibridi più promettenti. Per Federica Ferrario, responsabile della campagna “Agricoltura Sostenibile” di Greenpeace: “è come una lente di ingrandimento che ci consente di vedere nel dettaglio le caratteristiche delle varietà da incrociare e puntare direttamente sulle più idonee. Si tratta di un processo partecipativo, che unisce il sapere contadino alle competenze dei ricercatori”. In questo caso, il procedimento punta moltissimo sulla biodiversità, per creare varietà resilienti alle sfide dei prossimi cambiamenti climatici, l’esatto opposto dell’agricoltura industriale e ingegnerizzata, che predilige monocolture omogenee, basate su sementi, fertilizzanti ed erbicidi controllati quasi totalmente da poche multinazionali del biotech. Due concezioni contrapposte, sulle quali i consumatori dovrebbero poter decidere consapevolmente, grazie a un’informazione e un’etichettatura chiara e trasparente, che indichi in modo inequivocabile come è stato prodotto il cibo che ci apprestiamo a consumare.

 

 

 

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