La Gran Bretagna è un’isola, ma l’Europa no

Giovedì 23 giugno si terrà il referendum in cui i cittadini della Gran Bretagna decideranno se continuare ad essere membri dell’ Unione Europea. Le popolazioni che abitano quella grande isola continuano così a tenere in scacco le sorti dell’ Europa comunitaria, ricordiamo che già la Scozia, lo scorso anno, ci tenne in apprensione, fino a che non bocciò la propria separazione dal Regno Unito: infatti la sua scissione avrebbe aperto scenari imprevisti per la continuazione dell’ appartenenza, alle istituzioni continentali, di un territorio “scissionista”, considerando anche la possibilità (remota?) di uscita della Catalogna dalla Spagna.

Il primo ministro britannico, Cameron, infine favorevole alla permanenza (dopo aver ottenuto effimeri vantaggi politici ed economici in un recente vertice europeo), si trova a gestire una consultazione che aveva voluto, o almeno appoggiato, probabilmente per soli scopi elettorali, a dimostrazione che gli statisti lungimiranti sono ormai in via d’estinzione (non solo a Londra) o, addirittura, sono del tutto già scomparsi (vale sempre la citazione di De Gasperi: “gli uomini politici puntano alle prossime elezioni, mentre gli statisti pensano alle prossime generazioni”). Confidiamo che la crisi della sterlina e i progetti di esodo di banche ed aziende, da una Londra separata, inducano a migliori consigli i prossimi votanti (a questo dobbiamo affidarci, … alla faccia di Spinelli, Rossi e Colorni e di tutti i federalisti europei, incominciando da Kant, che fu un “accanito” sostenitore di un sistema di stati federali, unica garanzia per una “pace perpetua”, come dal titolo di una sua interessante opera, purtroppo non così nota).

L’insularità britannica è sempre stata una chiave fondamentale della storia europea, mettendo la nazione sull’uscio del continente e consentendole di entrarne od uscirne a piacimento, a seconda della situazione più favorevole: un occhio all’Europa, un altro oltre l’Atlantico ed entrambi volti a raccogliere i migliori affari in tutto il mondo: arbitro o giocatore, dipendeva dalla miglior convenienza.

Essere un’isola le ha risparmiato le grandi e massacranti guerre terrestri, anche recenti, che hanno impoverito per secoli i territori continentali, ciò nonostante le due grandi invasioni subite (ad opera del Romani prima e dei Normanni poi) e le sue sanguinose battaglie intestine; ma le minori spese per mantenere ed armare famelici eserciti, oltre a favorirne la prosperità (e le flotte) ha consentito alla società britannica di essere meno condizionata dalle classi militari e di promuovere uno stato maggiormente democratico, rispetto ad altre potenze europee (la “Magna Carta Libertatum”, storicamente considerata il primo documento “moderno” per il riconoscimento dei diritti dei sudditi –dei nobili almeno- fu concessa dal re d’ Inghilterra Giovanni “Senzaterra” nel 1215, in ampio anticipo su tutte). Il Regno Unito è anche stato un asilo sicuro per intellettuali liberali e democratici osteggiati nei paesi d’ origine, come fu –ad esempio- per Mazzini. Quindi non tutta l’insularità viene per nuocere, ma può creare un pericoloso senso di autosufficienza (Lampedusa rappresenta, invece, una positiva eccezione).

Anche l’ Europa ha sempre fatto del suo meglio nel rapporto di “odio e amore” con i cugini di oltre Manica, basti pensare all’ ostilità della Francia gollista all’ ingresso della Gran Bretagna nell’ allora CEE, negli anni ’60, ritardando e così indebolendo il processo di integrazione europea.

Tutto ciò, ed altro ancora, spiega come, se non si superano orgoglio nazionale ed interessi parziali, il futuro del nostro continente assediato dalle povertà sarà sempre più incerto: nessun uomo è un isola, diceva il poeta inglese John Donne, che ricordava anche: “Ogni morte mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità, e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te”, citazione nota per essere stata ripresa da Hemingway in “Addio alle armi”, il romanzo ambientato nella tragedia della guerra civile spagnola. Naturalmente ci si riferiva al suono delle campane “a morto”, dalla Siria alla Libia, dalla Turchia alla Grecia, dalla Macedonia all’ Austria (passando per l’Ungheria, se si riesce), da Calais a Dover, … suono “a morto” che nessun referendum o muro eretto potrà mai zittire.

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