Referendum sulle trivelle: una questione di democrazia

Articolo uno della Costituzione italiana: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tra queste forme, il referendum, che consente al cittadino di esercitare la democrazia in forma diretta, anziché per il tramite di rappresentanti eletti in Parlamento. È quindi perlomeno singolare che il direttivo di un partito che di nome fa “Democratico” inviti a boicottare la consultazione referendaria sulle concessioni petrolifere del prossimo 17 aprile. Una presa di posizione, quella della dirigenza PD, assunta in maniera verticistica e che ha provocato pesanti critiche da parte di molti suoi membri, che l’hanno contestata nel merito e nel metodo. Ma la polemica è servita almeno ad accendere i riflettori su un appuntamento elettorale a breve scadenza sul quale pareva essere sceso un assordante silenzio mediatico, e che invece affronta una questione nodale per lo sviluppo del Paese, quella delle politiche energetiche per gli anni a venire.

Vediamo dunque di analizzare il quesito referendario e le ricadute del suo esito, non senza aver prima fatto una premessa dovuta: qualcuno, parlando di giornalismo, diceva che è impossibile essere imparziali, ed è quindi più onesto esplicitare al lettore il proprio punto di vista in modo trasparente, in modo che quest’ultimo possa filtrare ciò che legge. Dunque, chi scrive dichiara che si recherà a votare in favore del “Sì”alla limitazione temporale delle concessioni petrolifere, augurandosi la medesima trasparenza anche da parte degli altri commentatori che, da qui a domenica, si occuperanno dell’argomento.

Nella sostanza, si tratta di decidere la durata delle attuali concessioni petrolifere situate entro le 12 miglia marine, poco meno di 20 chilometri, sapendo che in futuro non potranno essere posizionati nuovi impianti in tale fascia a ridosso delle coste, giudicata troppo a rischio, ed eventuali piattaforme offshore potranno sorgere solo oltre questo limite. Rimangono quelle già in attività, 21 in totale (7 in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata, 2 in Emilia Romagna, 1 nelle Marche, 1 in Veneto) per le quali era prevista una durata della concessione di trenta anni, rinnovabile per ulteriori 10. La legge di stabilità ha cancellato questa limitazione, lasciando ai gestori delle piattaforme la possibilità di proseguire l’estrazione illimitatamente. Il referendum punta a reintrodurre la scadenza temporale precedente. Vale la pena ricordare che ciò che si trova nel sottosuolo del Paese (anche sotto i fondali marini della fascia costiera) è proprietà del demanio, cioè dei cittadini, in sostanza “bene comune”. Ma una volta assegnata la “concessione”, la risorsa diventa appannaggio della società petrolifera, che può disporne come meglio crede, introducendola sul mercato, non necessariamente indirizzata al soddisfacimento di una parte, seppur minima, dei fabbisogni energetici del nostro Paese. Se tale concessione diviene illimitata, come previsto dalla Legge di Stabilità, il bene è di fatto alienato e passa dalla disponibilità pubblica a quella privata. È pur vero che il concessionario paga una tariffa allo Stato per usufruire del bene, ma occorre sottolineare che le royalties richieste dall’Italia sono fra le più basse al mondo: 7% sulla quantità di petrolio estratta, 10% per il gas. Ma con l’esclusione, per gentile omaggio ai petrolieri, delle prime 50.000 tonnellate di petrolio e dei primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno. Una tariffazione talmente irrisoria da aver portato nelle casse statali, nell’ultimo anno, appena 340 milioni di euro, ovvero meno del costo del mancato election day, cioè l’accorpamento della consultazione referendaria col primo turno delle prossime elezioni amministrative, come richiesto a gran voce dai promotori del referendum e come accuratamente evitato dal Governo, costringendo i cittadini a un doppio impegno e sperperando una montagna di denaro pubblico, alla faccia della spending review.

In ogni caso, a prescindere dall’esito finale, gli effetti diretti del referendum saranno relativamente limitati, per cui risultano stonati e visibilmente strumentali gli allarmismi lanciati circa pesanti ricadute occupazionali in caso di vittoria dei “Sì”. Le piattaforme continuerebbero le loro attività (peraltro spesso gestite “in remoto”, quindi senza la presenza di personale a bordo) per lo stesso arco temporale previsto inizialmente dalla concessione, prima della proroga illimitata elargita con munificenza dall’esecutivo, e ci sarebbe tempo e modo di gestire eventuali esuberi.

Ma c’è una seconda chiave di lettura che innalza la portata politica della consultazione: si tratterebbe di dare un segnale forte al Governo in materia di politica energetica, decretando la volontà di un progressivo abbandono delle fonti fossili a favore delle rinnovabili. Un percorso già intrapreso da altri Paesi, che si è dimostrato vincente sia sotto il profilo ambientale, sia sotto quello occupazionale. Una strada che il nostro Paese aveva già imboccato, arrivando a produrre circa il 40% del proprio fabbisogno da fonti rinnovabili, prima che gli ultimi governi penalizzassero pesantemente il settore, provocando la perdita, reale e non ipotetica, anche se sottaciuta, di migliaia di posti di lavoro.

C’è ancora un’ultima considerazione da fare: al recente vertice di Parigi, l’Italia era in prima fila nel sostenere l’improrogabile necessità di contenere il riscaldamento globale per limitare i cambiamenti climatici. Ridurre il consumo di idrocarburi è il primo passo per ottenere questo risultato, puntando su efficienza energetica, riduzione dei consumi, nuovi stili di vita e, appunto, energie eco-sostenibili. Perché il vero quesito, al di là del referendum, è quale Paese vogliamo avere fra 10/15 anni, o quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli: è ridicolo e contraddittorio continuare a puntare sul petrolio e poi lamentarsi dello smog che soffoca le nostre città. E i costi sanitari della maggiore incidenza di malattie provocate dall’inquinamento non potranno certo essere coperti dai ridicoli canoni di concessione che l’Italia richiede ai petrolieri per lo sfruttamento dei nostri (scarsi) giacimenti. È dunque imperativo virare verso un modello di sviluppo più sostenibile, a partire dalle nostre scelte energetiche? Secondo i promotori del referendum, “Sì”.

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