L’economia italiana si sta spegnendo: è ora di cambiare cura
Gli ultimi dati usciti nella settimana prima di Ferragosto sull’economia italiana sono tanto gravi quanto prevedibili e di fronte ed essi vi è una sordità dell’establishment che fa paura.
In ordine: l’Istat nei giorni scorsi ci ha detto che continuiamo ad essere in deflazione a luglio, che la crescita nel secondo trimestre praticamente non c’è e che le previsioni sul Pil vanno corrette significativamente al ribasso.
La Banca d’Italia dopo anni di rigore finanziario impostoci dalla Troika per “ridurre il debito” ci segnala che prosegue inarrestabile, di record in record, l’aumento del debito pubblico, salito in giugno 2.248,8 miliardi, con un aumento di 77,2 miliardi nei primi 6 mesi dell’anno.
Infine, a chiudere la settimana nera dei dati, arriva l’Eurostat a ricordarci che deteniamo il record negativo in Europa dei giovani che non studiano e non lavorano.
Di fronte a questi elementi di dura realtà appare irresponsabile ricorrere a delle semplificazioni. Non si può semplicisticamente attribuire la colpa solo al governo, pur non ignorando la sostanziale sterilità del jobs act in rapporto alla crescita ed alla creazione di effettivo nuovo lavoro. Ed anche le opposizioni hanno poco da stare allegre di fronte ad un Paese che si sta spegnendo, non perché privo di risorse e di capacità, ma perché stremato da anni di politiche economiche intrinsecamente sbagliate. Chi critica il governo e poi non indica una alternativa alle suddette politiche probabilmente va incontro ad un deficit di credibilità. D’altra parte per il governo è passato il tempo in cui poteva cavarsela dicendo all’Europa, ovvero alla Merkel: noi siamo stati virtuosi e quindi ci dovete concedere maggiore flessibilità di bilancio.
É l’intero impianto austeritario che va smontato, alla svelta e senza il permesso della Germania. E non per un pregiudizio, ma perché dopo averlo provato esso si è dimostrato fallimentare e disastroso. Quell’austerità che ci condanna al circolo vizioso in cui siamo precipitati nell’ultimo quinquennio: più tasse, meno welfare, meno investimenti e minore retribuzione del lavoro per ridurre il debito. Ciò puntualmente produce il gelo dell’economia, ed aggrava, anziché migliorare i conti pubblici, per effetto del calo del gettito. E nonostante i palesi effetti deleteri dell’austerity sulla nostra economia, ottusamente, si continua a rispondere con nuovo rigore.
Questi crudi dati dell’andamento economico ci ricordano che la priorità per il Paese, almeno per quei circa due terzi di cittadini che soffrono gli effetti della crisi, non sono le riforme istituzionali, comunque la si pensi sul referendum. La priorità è una sola: sciogliere il nodo dell’austerità a cominciare dalla prossima legge di stabilità. E lavorare sin d’ora per un patto di salvezza nazionale tra i tre poli che eviti il baratro economico e sociale cui ci sta conducendo l’austerità, che sancisca il comune impegno per politiche espansive per il quinquennio della prossima legislatura, procedendo da subito alla cancellazione dalla Costituzione del pareggio di bilancio all’art.81. Visto che non ha funzionato l’austerità, è ora di cambiare cura: si provi a ridurre il debito pubblico operando nel contempo una riduzione fiscale forte ed avvertibile da tutti, e progressiva a vantaggio dei più deboli; un massiccio aumento degli investimenti per il lavoro e lo sviluppo, un altrettanto forte investimento nel welfare in particolare nella lotta alla povertà. Serve con urgenza uno scatto di responsabilità ed un supplemento di coraggio da parte di tutti.
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