Rossini Opera Festival, il teatro di regia prima del belcanto

Immagini: studio amati bacciardi

 

Con questo articolo inizia la collaborazione con Agenda Domani di Alessandro Mormile, critico musicale e studioso, grande appassionato di opera lirica, le cui recensioni trascinano letteralmente il lettore in platea, rendendolo partecipe delle emozioni, anche nelle più recondite sfumature, della rappresentazione operistica. Il suo stile brillante ed incisivo, sorretto da una preparazione monumentale, lo rende una fra le migliori firme del panorama musicale contemporaneo.

Il Rossini Opera Festival (ROF) di Pesaro, giunto quest’anno alla trentasettesima edizione, continua ad essere approdo obbligato per gli amanti del belcanto, segnalandosi ancora per essere la rassegna operistica più in vista dell’estate italiana. Lo è anche in virtù del fatto che ogni proposta del Festival ha l’avvallo di una Fondazione che ha curato le edizioni critiche di opere un tempo ignote al pubblico e che, poco per volta, sono state riscoperte dando vita a quella “Rossini renaissance” che prosegue il suo percorso adattandosi ai tempi e incontrando sempre l’interesse del pubblico, in gran parte formato da stranieri che giungono a Pesaro da ogni parte del mondo per due settimane di intensi appuntamenti all’insegna del miglior Rossini. Ormai il Festival non può più contare su quella rosa di grandi cantanti che segnarono il suo indimenticabile albo d’oro, ma si rinnova sposando nuove tendenze e cercando soluzioni perché il livello della programmazione non abbia a risentirne. Così è stato quest’anno, il primo della nuova direzione artistica affidata ad Ernesto Palacio, con i nuovi allestimenti de La donna del lago e de Il turco in Italia e con la ripresa del fortunato Ciro in Babilonia firmato da Davide Livermore. 

L’interesse sembra essersi spostato sull’aspetto visivo, divenuto il principale polo d’attrattiva di spettacoli che, seguendo il corso di mode e gusti, fanno discutere pubblico e critica tentando di proporre, sul piano musicale, il meglio di quello che si presume possa offrire il panorama odierno delle voci rossiniane, non paragonabili appunto (salvo isolate eccezioni) a quelle che fecero la passata fortuna del ROF, eppure tali da fotografare l’immagine più attendibile delle risorse esecutive offerte dai tempi in cui oggi si svolge il Festival.

Per La donna del lago, spettacolo inaugurale del Festival, l’allestimento è curato da Damiano Michieletto, che certa critica definisce, con fin troppa insistenza, il miglior regista d’opera italiano del momento, in grado di “far ragionare” il pubblico sul vero (o presunto tale) significato drammaturgico delle opere, anche a costo di discutibili forzature. Questa volta nessuna contestazione ma solo applausi per una messa in scena che nasce basandosi sull’idea del ricordo che gli anziani Elena e Malcom hanno, da vecchi sposi, del loro passato. Sulla scena ci sono due mimi che rimembrano il tempo che fu e nel momento in cui lo fanno il loro pensiero diventa vivo dando vita alla vicenda di Elena, la bella donna del lago di cui il Re di Scozia Giacomo V si innamorò nonostante lei fosse già promessa sposa al nemico giurato del clan scozzese ribelle. Michieletto muove in maniera parallela il ricordo e la narrazione con estrema abilità, svelando l’aspetto nascosto di un’opera ambigua non solo perché in essa convivono aspetti belcantistici che già precorrono il romanticismo, ma perché il velo di scontento e malinconia che avvolge il racconto è dettato dalla condizione della protagonista, che alla fine sposa Malcom eppure resta attratta da Re Giacomo V, il quale rinuncia magnanimamente a lei con un gesto che richiama la saggezza illuministica di molti monarchi celebrati dalla retorica operistica settecentesca. Insomma un amore che avrebbe potuto cambiare la vita di Elena se solo le cose avessero seguito un corso diverso. Ma non è andata così e non resta dunque che il rammarico per ciò che non è stato. Si comprende quindi il carattere emotivo della vicenda attraverso l’utilizzo della rimembranza, con l’uso dei doppi e con una selvaggia natura lacustre che invade una stanza di ricordi offesa dal tempo. Un modo per scavare nel recondito significato drammaturgico del libretto di Tottola allontanandolo però dall’idilliaco fascino di natura che qui si palesa senza poesia, quando le sterpaglie di un canneto invadono una dimora ormai cadente, con vetrate infrante, divani e poltrone rovinati e un letto arrugginito attorno ai quali è cresciuta erba alta. Lo spettacolo, privato così della dimensione naturalistica dell’idillio, che è anche quella del vedutismo romantico, scava nei meandri psicologici più che in quelli silvestri dell’opera e tramuta i sentimenti, vissuti con la tecnica del ricordo, da elegiaci a ossessivi, a favore di una lettura registica che finisce per risultare cervellotica. Esecuzione musicale di alto profilo grazie alla direzione d’orchestra di Michele Mariotti che, alla testa dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, è quanto di meglio si possa immaginare per un’opera come questa; una bacchetta, la sua, sensibile ed attenta alle voci, capace di intessere morbidi ricami sonori per quella dimensione patetica che precorre, nelle delicate melodie tanto lodate da Giacomo Leopardi, tinte quasi schubertiane ed insieme dà sfogo al florilegio belcantistico del miglior Rossini condito con quegli echi guerreschi sturm und drang che Mariotti non dimentica di tratteggiare rendendo piena giustizia alla singolarità di una partitura in bilico fra classicismo e romanticismo. Il cast vocale è un mix di giovani promesse e cantanti già affermati. Il soprano georgiano Salome Jicia, nei panni di Elena, si è formata alla Accademia Rossiniana ed ha indubbie frecce al proprio arco vocale, con un timbro scuro adatto alla parte; non si avverte ancora l’esperienza necessaria a risolvere espressivamente tutte le possibilità offerte da un ruolo come questo, ma nel rondò finale sfoggia un virtuosismo perfettibile seppur già di tutto riguardo. Il mezzosoprano Varduhi Abrahamyan, nei panni en travesti di Malcom, possiede un bel colore di voce anche se la parte richiede affondi nel registro grave da vero contralto che non sono certamente nelle sue corde. Nelle rispettive ed impervie parti tenorili di Giacomo V e Rodrigo si ascoltano due fuoriclasse rossiniani quali Juan Diego Florez e Michael Spyres. Il primo ha festeggiato quest’anno a Pesaro il ventennale di una carriera che l’ha visto imporsi da giovanissimo al ROF per poi divenire in Rossini il numero uno oggi al mondo. Ovviamente gli anni passano, le scelte del repertorio l’anno portato a sperimentare nuove vie non sempre opportune, ma Florez, anche se qualche acuto brilla meno di un tempo, resta meravigliosamente uguale a se stesso; tenta anche alcune soluzioni espressive mirate a dar nuovo volto ad un canto che lo vede primeggiare nel duetto con Elena del primo atto e poi nella difficilissima aria che apre il secondo atto, “Oh fiamma soave”, cantata da par suo, con poetica elegia, anche se con un principio di “artistica stanchezza” nella voce. Stilisticamente più interessante è l’approccio vocale di Spyres, il quale, dinanzi ad una scrittura da baritenore, fa rivivere il profumo stilistico dei cantanti ottocenteschi per quegli arditi salti d’ottava dall’acuto al grave e per quel coraggioso slancio acrobatico che lo rende l’elemento di punta di un cast dove si ammirano anche la voce intensa e sonora, oltre che di bel colore, del basso Marko Mimica, eccellente Duglas, lo stile del tenore Francisco Brito, perfetto come Serano e Bertram e Ruth Iniesta, ottima Albina.

Per Il turco in Italia il regista Davide Livermore, che è un habitué del Rossini Opera Festival, sceglie una via registica felliniana, con esplicite citazioni alla celebre pellicola Otto e mezzo. La grigia scenografia con quinte di veli bianchi si trasforma in un colorato set cinematografico dove il poeta Prosdocimo cerca il soggetto per il suo dramma vestendo i panni che nel film sono di Marcello Mastroianni. Attorno a lui si muovono i protagonisti di questa commedia dalle tinte pirandelliane che ricordano tante figure del cinema italiano di quella felice stagione. L’idea è buona, ma la sovrabbondanza di immagini e sollecitazioni visive finiscono per creare tanta confusione, tradendo lo spirito d’ironia un po’ sarcastica che dovrebbe invece regnare incontrastata nell’ossimoro stesso insito alla definizione di quest’opera come “dramma buffo”, dando vita a personaggi che sappiano tradurre il clima divertito ma anche amaro dell’opera. Sul podio, alla testa dalla Filarmonica Gioachino Rossini, e pure impegnata nell’accompagnamento dei recitativi al fortepiano, la talentuosa Speranza Scappucci imposta una direzione d’orchestra con spunti interessanti, ma per lo più squadrata e ancora priva di reale fantasia teatrale, con tempi talvolta troppi rapidi, come nell’aria “Se ho da dirla, avrei molto piacere” di Geronio, che non mettono in difficoltà Nicola Alaimo solo perché tecnica e musicalità non tradiscono mai questo cantante, da solo capace di imporsi in un cast di nomi altisonanti ma inferiori alle attese, staccandosi di una spanna su tutti per personalità scenica e resa vocale impeccabili, sempre in sintonia con le ragioni del personaggio, del quale coglie meravigliosamente il lato buffo del marito umiliato tratteggiandolo con una punta di amara ed insieme umana autenticità d’animo, senza ombra di forzature o cadute di gusto. Se il bravo Pietro Spagnoli, Prosdocimo, si apprezza per la sovrana intelligenza espressiva del fraseggio da fine dicitore, giocato saggiamente sulle pieghe della parola prima ancora che sul suono, René Barbera, Narciso, è un tenore rossiniano che svetta generosamente in acuto ma al quale mancano sfumature. I veri problemi si hanno con Erwin Schrott e Olga Peretyatko. Si poteva immaginare che una parte di buffo nobile come quella di Selim potesse creare non poche difficoltà al basso-baritono uruguaiano, che ha una voce indubbiamente importante ma diseguale nell’emissione, con nessuna dimestichezza col canto di agilità, approssimativo e incerto, e con uno stile che fa a pugni con Rossini, tale da rendere alcuni passaggi inaccettabili all’ascolto. Anche il personaggio, con le continue gags sceniche che ne mortificano l’indole nobile, punta su uno charme istintivo, rozzamente esibito. Il fascino è una qualità che non manca alla Peretyatko, che nei panni di Fiorilla si pensava potesse donare il meglio delle sue capacita vocali ed interpretative. Invece, anche se la figura è quella della diva sexy, che entra in scena in vespa vestita come una modella, il personaggio, nonostante pose e abiti che ne mettono in mostra l’indubbia bellezza, non ha il carisma dell’autentica primadonna buffa perché manca di pepe e vera astuzia femminile. A questo si aggiunga una condizione vocale problematica, certo non all’altezza della sua fama e, ancora una volta, del sostegno mediatico che sempre l’accompagna. Bisogna riconoscerle qualche bel momento nel canto patetico, ma anche tanta difficoltà in una coloratura fallace, soprattutto nell’aria del secondo atto, dalla quale non è uscita ad ossa rotte come alla prima, trasmessa in diretta da Radio 3 Rai (noi riferiamo invece della terza recita), perché ha semplificato le variazioni commisurandole alle sue limitate possibilità virtuosistiche, così da disimpegnarsi onorevolmente. Completano degnamente il cast Pietro Adaini, Albazar, e Cecilia Molinari, Zaida.

Il pubblico applaude tutto e tutti con accoglienze festose, accettando di buon grado l’evoluzione di un Festival dove il teatro di regia sembra aver preso il sopravvento sul belcanto, in attesa che tornino tempi migliori, per il canto si intende, non per una rassegna che tiene salda la sua posizione di indiscutibile prestigio con spettacoli all’insegna del tutto esaurito.

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