Siria, volere la pace richiede verità sulla guerra

Sono giorni decisivi per la liberazione di alcuni quartieri della città siriana di Aleppo, assediata per molto tempo da gruppi di mercenari stranieri appartenenti a milizie jihadiste e terroriste, le quali oggi sono accerchiate dall’esercito siriano. Mentre si assiste a così tante sofferenze e spargimento di sangue della popolazione civile, che esigono una tregua umanitaria, non si può non fare qualche considerazione di responsabilità su questa tragedia. L’apertura del fronte siriano, seguita all’intervento militare del 2011 che ha portato alla disintegrazione della Libia come entità statale, si è rivelata un calcolo sbagliato da parte dell’Occidente e dei suoi alleati mediorientali, Arabia Saudita in testa.

È chiaro che se una tale scelta fosse stata sottoposta a dei criteri etici e se i mass media fossero stati meno sazi di veline e più indipendenti nel raccontare ciò che stava effettivamente accadendo, avremmo oggi una situazione meno drammatica sotto tutti i punti di vista: delle prospettive di pace in Siria, dell’esodo dei profughi di guerra, del terrorismo. Invece la linea seguita dalle maggiori potenze alleate (Usa, Gran Bretagna, Francia) è stata quella di innescare la guerra civile in Siria, sull’onda delle cosiddette “primavere arabe”, facendo affluire decine di migliaia di sanguinari combattenti fondamentalisti stranieri, da loro addestrati, armati e finanziati, con il falso pretesto di sostenere una improbabile rivoluzione democratica, mentre il vero loro obiettivo era, e rimane, il cambiamento di collocazione geopolitica della Siria, il suo passaggio dall’alleanza con l’Iran alla sfera di influenza sunnita.

Tale progetto ricevette da subito, dall’estate del 2013, uno stop sul piano della legalità internazionale in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu per il veto di Russia e Cina ai bombardamenti americani sulla Siria, accompagnato da una risoluta opposizione alla guerra da parte del Pontefice e delle comunità cristiane presenti in Siria, e da un ruolo discreto ma assai fermo, del governo italiano. Ciononostante il partito della guerra, guidato dai neoconservatori americani, quello che punta alla divisione per linee etniche e religiose del Vicino Oriente e che quindi persegue piani di smembramento degli stati esistenti, non si rassegnò ed escogitò in alternativa ad un intervento militare autorizzato dall’Onu, la soluzione che ben conosciamo: il Daesh, che spuntò subito dopo, nel giro di pochi mesi, in funzione soprattutto del cambio di regime a Damasco e della frantumazione della Siria e del disastrato Iraq. La via terroristica, che nelle previsioni dei suoi ispiratori avrebbe dovuto portare ad una rapida capitolazione dello stato siriano (proprio un anno fa la previdente Cancelliera tedesca aveva posto il problema dell’emergenza dei profughi di guerra siriani) ha provocato invece nell’ottobre scorso l’intervento armato della Russia contro l’Isis e il sostegno militare, confermato ufficialmente solo qualche giorno fa, della Cina al regime di Assad.

In sostanza, dopo tre anni di feroci combattimenti, la Siria è ritornata al punto in cui si trovava nel 2013. Già allora era chiaro a tutti (e a maggior ragione doveva esserlo ai governi) che – come rilevai ad una manifestazione delle Acli a Cortona il 21 settembre di quello stesso anno – “la Siria, suo malgrado è stata assunta a banco di prova di una nuova configurazione multipolare del mondo, ormai matura e pronta ad innescare rischiosissime prove di forza tra ciò che resta dell’unilateralismo statunitense e il nuovo ruolo internazionale invocato da nazioni come la Russia e la Cina. Ogni forzatura potrebbe innescare delle conseguenze incontrollabili”.

La forzatura c’è stata, rispetto al proposito manifestato  fin da prima dello scoppio del conflitto da Russia e Cina di non consentire all’Occidente di compiere in Siria ciò che aveva fatto in Libia, Iraq e Afghanistan ed il bilancio in termini di distruzione e morte, è altissimo in Siria come a Parigi, Bruxelles, Nizza, Monaco.

La Siria rimane il simbolo e la misura del passaggio al multipolarismo nella politica internazionale e il conflitto che da oltre tre anni la dilania, non potrà trovare una soluzione che non sia condivisa. Insistere per far prevalere una soluzione unilaterale oltre ad essere temerario è indice di non comprensione del mondo attuale. E che l’Unione Europea stenti ancora a divenire protagonista di un tale cambiamento di visione deve farci molto riflettere ed attivare per imprimerle una svolta.

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