Ventotene e le scelte ineludibili per l’Europa
Oltre alle ragioni contingenti di tre leader che hanno bisogno di rilanciarsi all’interno dei loro stati, dal vertice trilaterale di Ventotene fra Merkel, Hollande e Renzi è emersa la necessità per l’Europa di non poter più continuare ad eludere le questioni di fondo da cui dipende il futuro del progetto europeista. Perché, come ci ricorda Papa Francesco, questa non è tanto un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca, di fronte al quale il sogno dell’integrazione europea deve ridefinirsi con il coraggio di compiere scelte di portata storica.
Al posto della mediocrità politica e morale servono visionari come Altiero Spinelli e gli altri artefici del Manifesto di Ventotene, politici capaci di visione come lo furono Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman. E serve anche un po’ di parsimonia nel celebrarli, perché spesso la retorica diventa lo scudo con cui copriamo la mancanza di idee nel presente. Infatti questi grandi personaggi nel governare il percorso da cui nacquero le prime istituzioni comunitarie, non lisciarono il pelo alle loro opinioni pubbliche, posero delle questioni che a molti loro contemporanei potevano apparire scabrose o, come si direbbe oggi, politicamente scorrette.
Per questo non ci si può limitare ad un elenco delle priorità indicate al vertice di Ventotene. Occorre comporle in un disegno che implica scelte politiche di fondo. A partire dal tema dei flussi migratori che richiedono una gestione comune europea ferma ed autorevole, capace di convincere tutti i Paesi membri che tale emergenza non si supera con la logica dei muri, ma con una strategia complessiva dell’Unione Europea per il salvataggio e l’accoglienza dei migranti, per il contrasto ai trafficanti di esseri umani, per la fine delle guerre e per lo sviluppo nei Paesi di origine in modo che l’immigrazione diventi una scelta e non una necessità per sfuggire alla guerra e alla miseria.
Non appare inoltre sufficiente, per quanto auspicabile, tornare a parlare di esercito comune europeo, se non si colma il vuoto politico che rende l’Europa inesistente sul piano internazionale. C’è da riportare stabilità e pace praticamente in tutte le aree di confine: dall’Ucraina, al Caucaso, al Mediterraneo e al Vicino Oriente. Ma la strategia dell’Ue e dei 27 qual è: quella di aspettare l’esito delle elezioni presidenziali americane per adeguarvisi oppure quella di dare dei concreti segnali di autonomia? Gli interessi europei esigono con la massima urgenza di svincolarsi dalla strategia neoconservatrice di destabilizzazione degli stati vicini all’Europa, i cui frutti di distruzione, morte e mancato sviluppo li possiamo constatare in Libia, Iraq, Siria, Ucraina, solo per citare qualche esempio. Questa è una delle grandi questioni a cui l’Europa deve dare una risposta, altrimenti rischia il tramonto se non addirittura la guerra. Di fronte ad una strategia ostile agli interessi europei, che è determinata in particolare a impedire con ogni mezzo (vedasi la guerra civile innescata in Ucraina) l’integrazione economica tra la Germania e la Russia, si è vista sinora solo sudditanza da parte delle classi dirigenti europee. Ma ciò significa, nei fatti, la rinuncia da parte dell’Ue a esercitare un ruolo autonomo nel mondo multipolare. Sotto questo profilo per l’Europa si tratta allora di recuperare “intelligenza e visione per battere chi vuole la guerra e la provoca”, come ha lucidamente rilevato il presidente Mattarella nel suo recente intervento al Meeting di Rimini.
L’altro grande versante sul quale si avverte la necessità urgente per l’Europa di riprendere in mano le redini del proprio destino è quello economico e sociale. Si tratta di fermare la caduta nel baratro della miseria delle classi lavoratrici e dei ceti medi europei. Di ridare speranza di costruirsi un avvenire ai milioni di giovani che compongono la generazione perduta che si aggira senza lavoro e con sempre minor sostegno della famiglia e del welfare in Europa. Per la tenuta della zona Euro è ormai decisivo il superamento dell’austerità, senza di cui interi stati sono condannati ad un pericoloso peggioramento dell’economia e delle condizioni di vita. La Grecia risulta già ridotta ad una nazione che necessita di aiuti umanitari. Per il nostro Paese la fine dell’austerità costituisce una necessità vitale, per liberarsi da un cappio che con gli anni si stringe sempre più al collo provocando un colpevole soffocamento dell’economia, la deflazione, la disoccupazione a livelli record.
Le politiche per rilanciare il progetto europeista ci sono, quello che manca è spesso la volontà dei gruppi dirigenti di esercitare una responsabilità di fronte al popolo ed all’altezza delle sfide attuali. Per paradosso, con una eterogenesi dei fini di cui è intessuta la storia, la brexit sta in realtà facendo della Gran Bretagna un possibile modello ed una proiezione di quello che potrebbe divenire la nuova Europa. Con la scelta compiuta dal popolo al referendum dello scorso giugno il Regno Unito si è svincolato dal rapporto privilegiato tra Washington e Berlino, che costituisce il vero asse di governo di questa Europa che non suscita più entusiasmi, e si è proiettata con coraggio e lungimiranza nel contesto multipolare che caratterizza il mondo attuale, sfidando apertamente le residue velleità unilateraliste degli Stati Uniti. Se a Bruxelles e nelle altre capitali dell’Ue si faranno seriamente i conti con ciò che è successo veramente a Londra, forse la brexit anziché una sconfitta potrà essere ricordata come un nuovo promettente inizio del cammino di integrazione europea.
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