Stati Uniti: presidenziali vicine al traguardo

Poche manciate di ore ci separano da che quella che, ogni quattro anni, si rivela come la contesa politica più avvincente del mondo: le elezioni del presidente degli Stati Uniti. Un’elezione, questa del 2016, sempre più incerta, tra la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump. Nei tre dibattiti la Clinton aveva prevalso sull’avversario, ma la nota inviata al Congresso dal direttore del Fbi, James Comey, sulle mail di Stato che la candidata democratica avrebbe inviato da un indirizzo privato, stanno rimettendo in discussione la partita.

Di certo si fronteggiano due concorrenti alquanto particolari. La Clinton, predestinata alla candidatura in modo quasi automatico, è stata sempre percepita come figura dell’establishment. Ha avuto quindi buon gioco il senatore del Vermont, Bernie Sanders, dell’ala sinistra del partito, che nelle primarie si è posto come il portabandiera della base. A rischio di spaccare il partito. Poi le cose si sono aggiustate e, ottenuta la designazione (la famosa nomination), la Clinton è riuscita a compattare il suo campo. Una mossa intelligente è stata la nomina, come vice, del senatore della Virginia Tim Kaine, un cattolico centrista ben adatto a rassicurare gli elettori moderati, spesso infastiditi da certe posizioni laiciste della Clinton.

Nelle fila repubblicane tutto è stato più complicato. L’establishment è stato completamente spiazzato dal travolgente successo di Trump. La sua campagna, all’insegna del più sfrenato populismo, ha surclassato gli altri pretendenti, tra i quali, in verità, non spiccava alcuna personalità di particolare rilievo. Inevitabile dunque la sua designazione, a meno di non stravolgere (ma sarebbe stato un pessimo precedente) l’esito del voto popolare. Il fatto è che il partito repubblicano, o Great old party come spesso viene chiamato, non è più quello del moderatismo di Dwight Eisenhower o di Richard Nixon. Quella gloriosa tradizione che ci auguriamo venga presto rinverdita, ha trovato in George Bush padre il suo ultimo epigone. Dopo di lui è entrato in scena l’estremismo ultra-conservatore dei Tea-party e dei fondamentalisti evangelici. Un sottobosco quanto mai propizio all’ascesa di uno come Trump. Come per i democratici, anche in casa repubblicana pare azzeccata la scelta per la vicepresidenza di un conservatore di matrice classico, senza eccessi ideologici, come il senatore dell’Indiana, Mike Pence. Una carta che, chissà, potrebbe anche rivelarsi utile in future occasioni.

Martedì 8 novembre, oltre duecento milioni di americani sono dunque chiamati alle urne. Come ben sappiamo il sistema elettorale statunitense, a differenza di quello francese, non prevede l’elezione diretta del Presidente. Oltreoceano i cittadini votano i cosiddetti grandi elettori, il cui numero in ogni Stato è proporzionale agli abitanti. Così la California vale 55 voti, mentre il poco popolato Montana ne assomma soltanto tre. A parte Maine e Nebraska che attribuiscono quattro voti ad ciascun candidato, in tutti gli altri Stati chi prevale, anche di un solo voto, si aggiudica tutti i corrispondenti grandi elettori. Il loro numero complessivo è di 538, per cui per venire eletti occorre conquistarne 270.

Per capire come andrà a finire bisogna concentrarsi sugli Stati in bilico, quelli cioè che da un’elezione all’altra cambiano colore. A ben vedere sono più o meno sempre gli stessi. In particolare Florida ed Ohio, che assommano rispettivamente 29 e 18 voti. Quest’anno pare aggiungersi anche l’Arizona (con un pacchetto di 11 voti), feudo repubblicano da decenni che, grazie al voto della comunità ispanica, potrebbe finire ai democratici, favoriti dalla loro politica sull’immigrazione.

Chi vincerà? Ancora qualche giorno fa la Clinton sembrava avere la strada spianata, adesso, dopo il sussulto provocato dal capo del Fbi, le cose si sono ingarbugliate. Tutto pare quindi possibile, anche se Hillary, in ragione della sua indubbia esperienza politica, pare ancora avvantaggiata. Possiamo comunque dire che, considerato lo scarso entusiasmo che continua a destare la Clinton, che pure è nettamente più preparata del suo avversario, se i repubblicani avessero schierato uno dei loro classici candidati (un John Mc Cain tanto per capirci) oggi avrebbero le mani sulla Casa Bianca. Così come, specularmente, se di fronte a un demagogo come Trump ci fosse un democratico con maggior appeal verso la base, la vittoria sarebbe già ampiamente assicurata.

Per molti versi, sarà dunque un’elezione per difetto, come sempre più spesso accade nelle nostre disincantate democrazie. Forse sarebbe il caso di ripensare ai meccanismi di selezione della classe dirigente. Ma è un discorso che ci porterebbe lontano. Per intanto i votanti scegliono il meno peggio, sperando che tutto vada per il meglio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.