Solidarietà e sobrietà per uscire dalla crisi
Pubblichiamo l’Editoriale dell’ultimo numero dei Quaderni per il dialogo e la pace del Centro Ecumenico Europeo per la Pace (CEEP).
«La crisi» ha scritto Benedetto XVI nella Caritas in veritate «ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno»(§21). Ma siamo noi in grado di ottemperare a questo “obbligo”? Lo sono le istituzioni politiche e gli organismi economici internazionali? Lo sono le forze sociali e il “terzo settore” economico? Lo sono i cristiani impegnati nella società in Europa?
Dopo oltre un anno di crisi economica e finanziaria conclamata e dopo qualche decennio di predominio della finanza speculativa sull’economia e sulle istituzioni politiche questa domanda appare più che giustificata.
I governi (occidentali) ed i vari organismi internazionali sanno benissimo che cosa si dovrebbe fare.
In sintesi. Presentare al sistema finanziario il conto delle sue colpe, anziché aumentare il debito pubblico ed indebolire i sistemi di welfare, rubando in questo modo il futuro ai giovani e impoverendo sempre più le classi medie e lavoratrici. E nel caso di consistenti aiuti pubblici, provvedere almeno al cambio dei dirigenti senza precludere la possibilità di una gestione pubblica delle entità in crisi. In Italia i Tremonti bonds vanno timidamente in questa direzione e per questo sono stati evitati come la peste dalla maggior parte delle banche.
Domare la speculazione finanziaria o per lo meno ricondurla a livelli “fisiologici”. A tal fine va reintrodotta una netta distinzione fra le banche che gestiscono il risparmio privato e le banche d’affari. Va ricondotta a livelli sostenibili la finanziarizzazione e la privatizzazione del welfare: bisogna impedire che le risorse per pensioni e sanità siano fatte sparire dalla speculazione, come sta accadendo a causa della crisi nei Paesi che più si sono spinti in questa direzione.
Vanno scoraggiate le transazioni finanziarie puramente speculative, soprattutto quelle sul cibo (grano, riso, mais), sulle materie prime e sulle fonti energetiche, che generano squilibri sociali ed economici molto acuti. Va recuperata la sovranità monetaria, oggi lasciata al mercato.
Va remunerato in modo meno ingiusto il lavoro, oggi svilito da una smodata ricerca di profitti. Ciò va fatto non solo per una questione di giustizia ma anche per ridare fiato alla domanda interna, presupposto per la ripresa.
In particolare, sul nodo della remunerazione del lavoro la crisi dovrebbe aiutarci a cambiare mentalità, a mettere bene in chiaro che l’attività economica non può essere concepita in funzione dei guadagni esorbitanti dei fondi speculativi (questo uccide l’economia e il futuro, come ci insegnano le vicende di questi ultimi anni) ma deve poter creare valore anche per i lavoratori e per le loro famiglie, sia nei Paesi cosiddetti “ricchi” che in quelli “emergenti.
Ora, se tutte queste cose sono chiare, sia all’opinione pubblica che ai governanti, si può dire che dalla distanza tra le dichiarazioni d’intenti e le effettive scelte si misura la qualità delle nostre “democrazie”. O come dice l’economista Stefano Zamagni, risulta evidente che la crisi è il frutto della separazione tra mercato e democrazia. Una divaricazione che, per alcuni aspetti, sembrerebbe essere arrivata ad un punto tale da inibire ai pubblici poteri di azionare il freno d’emergenza, costituito da incisive misure anti-crisi, pur di non toccare i “santuari” della speculazione finanziaria internazionale.
La questione posta dall’attuale crisi è dunque quella del rapporto fra economia di mercato e democrazia, non in termini astratti ma in termini di stringente attualità e concretezza. Ci sono nella società le energie necessarie per una svolta. Come quelle che provengono dall’economia sociale «una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali»1.
Per fare in modo che la politica si assuma le proprie responsabilità nell’affermazione delle ragioni del “bene comune”, per ricostruire un quadro di regole che vada a tutela del libero mercato, del rischio d’impresa, del risparmio, e che sia incentrato sull’economia reale e sul lavoro e sostenuto da un settore finanziario trasparente ed orientato allo sviluppo sociale ed economico.
C’è bisogno di una forte coesione, perché i contraccolpi della crisi non sono ancora finiti. Il 2010 si preannuncia delicatissimo: la produzione ristagna e la disoccupazione non cala. Ciò sottopone il debito pubblico dei principali Paesi occidentali ad una forte tensione. E il nostro Paese non è neanche fra quelli che se la passano peggio. Le difficoltà di tenuta dei conti pubblici esplose in autunno in Grecia preoccupano più che per il caso in sé, per quanto preludono a ciò che può accadere in altre ben più grandi economie, epicentro della crisi. La crisi, manifestatasi come rischio di insolvenza dei grandi detentori di titoli tossici, tamponata dall’intervento di fondi pubblici e delle banche centrali verso soggetti finanziari lasciati colpevolmente divenire “troppo grandi per fallire”, rischia ora di riversarsi sulla solvibilità stessa degli stati più esposti, alcuni dei quali, come se il dissesto finanziario non fosse già abbastanza grave, continuano a svenarsi nell’interminabile guerra in Afghanistan, la stessa che negli anni Ottanta precedette la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
1 Benedetto XVI, Caritas in veritate, §46.
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