I Cattolici nel PD

Una delle ragioni che furono alla base della nascita del Partito Democratico fu quella di dare compimento ad un percorso di progressiva convergenza fra i diversi soggetti che si ponevano come eredi delle culture riformiste del nostro Paese, in modo da costituire un solido presidio nella democrazia dell’alternanza per coloro che si riconoscevano in un’ idea di sinistra democratica, plurale, aperta a tutte le credenze religiose come pure a quelle non religiose che però si riconoscessero in un nucleo ideale ed in un progetto politico comune.

Naturalmente c’erano delle ambiguità di fondo da sciogliere, fra cui il fatto che la principale delle forze che davano vita al Partito Democratico, i Democratici di Sinistra, non avevano un’ascendenza socialdemocratica ma venivano, almeno per la parte maggioritaria del loro personale politico,da un partito che si chiamava comunista e che era stato la forza maggioritaria della sinistra italiana . Questa in fondo era la singolare anomalia del nostro Paese, l’unico in cui l’egemonia a sinistra fosse esercitata da un partito comunista, l’unico in cui di partiti socialisti ce n’erano due (e due rimasero, pur essendo ormai le loro differenze pressoché impercettibili, fin alla loro pratica scomparsa nel vortice di Tangentopoli), ed in cui l’egemonia politica era invece esercitata da un partito di denominazione cristiana in cui le componenti più schiettamente conservatrici, se non reazionarie, erano fortemente controbilanciate da un’area di sinistra sociale e politica assai diffusa.

Ciò peraltro impediva una dislocazione politica di tipo tradizionale (tradizionale, beninteso, rispetto al resto dell’ Europa) di dialettica bipolare fra socialdemocratici e conservatori  di ispirazione più o meno liberale o clerico-moderata, nella quale senza scandalo le forze più avanzate del cristianesimo sociale potessero inserirsi nelle socialdemocrazie, come è avvenuto sostanzialmente in Gran Bretagna, in Francia, e persino in Portogallo ed in Spagna (il caso tedesco è a parte). Ancora nel 2005, quando la proposta del Partito Democratico, che aleggiava da anni senza che assumesse concretezza politica, venne formalizzata dalle dirigenze di DS e Margherita, per essere poi confermata l’anno successivo dallo straordinario successo delle liste dell’ Ulivo alle elezioni per la Camera., le sedimentazioni ideologiche del passato apparivano insormontabili, e il partito si denominò “democratico” non  solo e non tanto per riferirsi al modello statunitense, ma soprattutto per evitare un richiamo ad altre aggettivazioni che sarebbero state inaccettabili per le diverse anime che concorrevano alla nascita del nuovo soggetto politico. “Non vogliamo morire socialdemocratici” era il leit – motiv  degli ex popolari e dei neoclericali riunitisi intorno a Francesco Rutelli ( a riprova del fatto che non c’ è nulla di peggio dei convertiti che, avendo molto da farsi perdonare, eccedono spesso e volentieri in zelo), e d’altro canto il radicamento dei DS negli ideali della socialdemocrazia (qualunque cosa significhi tale parola) erano troppo recenti per permettere una vera attestazione su tale fronte o su quello ancora più impalpabile del “riformismo”.

E tuttavia, come mise bene in chiaro Walter Veltroni nel suo famoso intervento al Lingotto di Torino del luglio 2007 in cui di fatto tracciava le linee della sua candidatura alla guida del PD, il nuovo partito non avrebbe dovuto essere una pura e semplice sommatoria di identità inerti e bloccate in un perenne gioco di quote di potere, il che avrebbe condotto alla paralisi politica, ma avrebbe dovuto portare ad una sostanziale fusione di tali soggetti in sensibilità di tipo nuovo, più adatte ad interpretare in senso progressivo le istanze reali del Paese.

In realtà, ed in un primo tempo era praticamente inevitabile, fu proprio quello che accadde nella definizione dei primi organigrammi e delle liste elettorali per le elezioni politiche dell’aprile 2008, celebratesi di nuovo in base all’iniquo sistema elettorale Berlusconi-Calderoli che nega ogni possibilità di scelta all’elettore.

Le tormentate fasi successive, con la caduta di Veltroni dopo una lunga fase di delegittimazione dall’interno, l’ elezione di Franceschini alla segreteria in condizioni di emergenza e la lunga campagna congressuale conclusasi con la doppia vittoria di Pierluigi Bersani fra gli iscritti e fra gli elettori, hanno parzialmente rimesso in moto la situazione, dislocando persone provenienti da tradizioni diverse negli schieramenti a sostegno dei diversi candidati alla Segreteria (ad esempio Piero Fassino e Sergio Cofferati si dichiararono per Franceschini, mentre Rosy Bindi ed Enrico Letta si schierarono per Bersani divenendo, rispettivamente il nuovo Presidente e Vicesegretario del PD). Tuttavia, già all’indomani dell’esito delle elezioni popolari Francesco Rutelli, che evidentemente  già da tempo covava tale proposito, ha lasciato il PD dichiarando fallito un progetto in cui lui probabilmente non aveva mai creduto dando vita ad un partitino moderato in cui si sono subito raccolti alcuni parlamentari suoi fedelissimi , e che erano stati inseriti nelle liste “blindate” del PD solo in virtù di tale fedeltà, mentre altri approdavano ai lidi dell’ UDC. Quanto tale scissione incida nei rapporti di forza generali è tutto da vedere, ma si può dire che questo sia il malinconico esito della vicenda dei cosiddetti teo-. dem, ossia di quegli esponenti politici , spesso di estrazione associativa, che nella Margherita prima e nel PD poi cercarono di realizzare una difficoltosa quadratura del cerchio fra una dislocazione politica in area progressista ed una prassi politica di tipo clericale, nel senso del recepimento immediato dei desiderata della Gerarchia ecclesiastica (in specie sulle questioni di ordine etico che assumevano così un’importanza oggettivamente spropositata nel quadro di una crisi economica e sociale senza precedenti).

Un discorso a parte è pure quello dei seguaci di Rosy Bindi e di Enrico Letta, il quale ultimo peraltro si caratterizza non tanto per un’appartenenza ecclesiale peraltro molto secolarizzata  quanto per  una robusta<z impostazione tecnocratica che tuttavia, a differenza del suo maestro Nino Andreatta, non è accompagnata da una visione strategica e da solidi legami territoriali.

La presenza che è più investita dalla questione del ruolo dei cattolici nel PD è evidentemente quella degli ex popolari, che fanno capo all’associazione “Quartafase” sotto la direzione di Franco Marini e Giuseppe Fioroni, e ai quali fa riferimento come origine anche Franceschini, sebbene alcuni fedelissimi dell’ex Presidente del Senato, probabilmente in accordo con il loro capo, abbiano tatticamente sostenuto la candidatura di Bersani confermando l’esistenza di un solidissimo asse fra Marini ed il vero “king –maker” del PD, Massimo D’Alema. Accade abbastanza di frequente che giungano segnali di disagio da questa area, che peraltro non ha mai teorizzato possibili fuoriuscite dal partito, ma sconta un deficit di progettualità politica che viene da lontano, ed un’ancor più preoccupante afasia intellettuale, come dimostra il fatto che la rivista che dovrebbe propagarne le idee ha prodotto solo due numeri molto distanti nel tempo (e ridotti sostanzialmente a “centoni” di commemorazioni o di articoli staccati fra di loro) ed il sito internet è praticamente inerte. Cosa più grave, i parlamentari che fanno riferimento a quest’area non si sono mai qualificati per particolari battaglie politiche o culturali che giustificassero la pretesa di una rappresentanza di qualcosa di più che una posizione di rendita. In un recente articolo comparso sulla rivista “Appunti di cultura e di politica” Franco Monaco, forse con una punta di ingenerosità, ha dipinto gli ex popolari come un “ceto politico”, una “cordata sostanzialmente agnostica e sterile sotto il profilo politico, abile e disinvolta nel negoziare la propria quota di minoranza dentro l’ Ulivo –Pd, sempre al carro dei processi politici volentieri delegati ad altri (…) con il risultato di rivestire con i panni del popolarismo la sostanza di una soggettività minoritaria e subalterna, sensibile più agli organigrammi che alla politica”. Un ritratto ingeneroso, si è detto prima, ma non del tutto fasullo, solo che si rifletta sul fatto che nel corso di questi anni nessuno dei processi politici di maggior rilievo ha visto un reale protagonismo dell’area che rivendica le ascendenze culturali e politiche del cattolicesimo democratico e del popolarismo: beninteso, vi è sempre l’esperienza di Prodi e dell’Ulivo, ma il Professore reggiano è stato sempre percepito come un estraneo da quel ceto politico, che non a caso concorse in qualche modo alla caduta del suo primo Governo.

Di fatto, risulta confermata l’amara profezia di Giuseppe Dossetti che nel 1993, nell’imminenza dello scioglimento della DC, avvertiva che non vi sarebbe stata in tempi ragionevolmente prevedibili una seconda generazione di una classe dirigente cattolica in politica: ceto politico sì, ma non una vera e propria classe dirigente capace di affermarsi per lungimiranza e chiarezza strategica con un progetto politico di respiro nazionale.

Ma forse questa situazione non è che il riflesso di una particolare stagione ecclesiale in cui le energie laicali sono state depresse, e la Chiesa gerarchica ha voluto presentare se stessa come ceto politico scontandone le conseguenze di divisioni e lotte oscure fra cordate e signorie di varia natura, come sembra apparire dai retroscena del penoso “affaire” che ha riguardato Dino Boffo. E tutto questo mentre da un lato nessun soggetto politico di ispirazione cristiana, inteso sia come partito vero e proprio o come area interna alle diverse forze politiche, sembra in grado di dire una parola chiara e forte che orienti il dibattito politico in una fase complessa e tormentata in cui gli stessi ordinamenti democratici tradizionali sono messi in discussione, e dall’altro, come annota malinconicamente il teologo Giacomo Cannobio, nel panorama ecclesiale l’eccesso di attenzione alle questioni etiche variamente declinate anestetizza le domande radicali dell’ uomo contemporaneo a cui nessuno sa credibilmente presentare la forza liberante del Vangelo.

Lorenzo Gaiani

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