Russia e Stati Uniti: nuovi (dis)equilibri strategici
Si sente spesso dire che il Presidente degli Stati Uniti d’America è l’uomo più potente del mondo. Non è vero, non più. L’uomo più potente del mondo è il padrone della Russia, lo zar Vladimir Putin. Questo fatto, già abbastanza evidente negli ultimi anni, è diventato palese in quest’ultimo strascico di presidenza Obama ed è destinato a rafforzarsi in futuro. Infatti, quasi un mese prima del suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca, gli effetti della presidenza Trump iniziano già a farsi sentire a livello strategico, spostando ulteriormente gli equilibri del mondo a favore del Cremlino. Lo dimostra la gestione della crisi siriana, che vede Mosca protagonista assoluta, mentre Washington osserva da un angolo. Un capovolgimento impensabile all’epoca del crollo dell’Unione Sovietica, che tuttavia è avvenuto in tempi abbastanza rapidi e sembra destinato a proseguire. Proviamo ad analizzare questo percorso e i suoi possibili sviluppi alla luce di quanto è avvenuto negli ultimi tempi.
Occorre premettere che in realtà, da un punto di vista strettamente giuridico, il presidente degli Usa non è mai stato “l’uomo più potente del mondo” perché, pur guidando la maggiore superpotenza, ha dei poteri regolamentati in modo preciso e bilanciati da quelli di altre entità, a partire da Congresso e Suprema Corte. La sua carica prevede dunque deleghe ampie, ma non ha ovviamente quella “mano libera” che da sempre caratterizza i leader della controparte russa e cinese, quest’ultima assurta ormai a sua volta al ruolo di grande potenza. Tuttavia, questa differenza era irrilevante all’epoca della “guerra fredda”, quando gli Usa si schieravano in modo compatto dietro al loro Comandante in capo a fronte della minaccia sovietica. E dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss la leadership mondiale degli Stati Uniti non era minimamente in discussione. Ma negli ultimi anni la presidenza Obama, che ha avuto indubbiamente nella politica estera il maggior tallone di Achille, ha perso inesorabilmente terreno, consentendo a Putin di ribaltare la situazione. La mancanza di visione strategica e lo strabismo degli “esperti” di Washington si è coniugato con l’indole di un presidente che, pur lasciando intravedere principi e idee condivisibili, non ha mostrato sufficiente coraggio per metterli in pratica, anche perché minato dalla mancanza di appoggio da parte di un Congresso in mano agli avversari repubblicani, pregiudizialmente contrari a qualunque sua iniziativa.
Sul fronte opposto, Putin non ha perso tempo nello sbarazzarsi della (poca) opposizione interna, spedendo in galera, in esilio o sottoterra chiunque potesse opporsi ai suoi disegni, spesso col plauso di un’opinione pubblica ben orchestrata, che vedeva con favore la rinascita del colosso ex-sovietico e il contestuale miglioramento delle proprie condizioni di vita, dopo anni di penombra strategica e ristrettezze economiche derivate dalla supina accettazione delle idee liberiste di matrice Usa, che hanno pervaso il pianeta come “pensiero unico” dopo l’implosione dell’Urss e tuttora guidano le decisioni delle elites mondiali (prime fra tutte quelle dell’UE), provocando crescente malcontento nelle popolazioni e conseguenti derive populiste e nazionaliste, esattamente come quelle che hanno permesso allo zar del Cremlino di accumulare un potere incontrastabile. A quel punto, la determinazione cinica e spietata dell’ex colonnello del Kgb divenuto padrone della Russia, unita all’astuzia diplomatica del suo ministro degli Esteri Lavrov – decisamente un paio di spanne sopra ai suoi omologhi statunitensi, il mediocre Kerry e prima di lui la stessa Clinton protagonista del recente tonfo elettorale – ha consentito a Mosca di aumentare in breve tempo il proprio ascendente globale.
Dopo anni di lenta erosione della zona di influenza ex-sovietica ad opera dell’Occidente, che lentamente fagocitava le fragili “repubbliche” nate dalla frantumazione dell’Urss contaminandole con le lusinghe del “libero mercato” e le promesse di un benessere economico che in realtà finiva per beneficiare solo le oligarchie dominanti, lo scenario è mutato in modo repentino e violento. Quando sull’Ucraina si è allungata l’ombra dell’UE, alle cui spalle non era difficile scorgere la presenza di Washington, è arrivato perentorio lo “stop” di Mosca, che per mantenere il controllo del territorio non ha esitato a fare quello che la presidenza Obama aveva invece sempre escluso esplicitamente: mettere boots on the ground, “stivali sul suolo”, cioè intervenire con le truppe di terra. Dopo aver supportato tatticamente i “ribelli” dell’est del Paese, che senza l’appoggio militare russo non avrebbero evidentemente potuto tener testa all’esercito regolare ucraino, il Cremlino ha deciso di riprendersi direttamente la Crimea, sbarcando in forze a Sebastopoli e ponendo sotto il proprio esclusivo controllo la strategica base navale sul Mar Nero. La decisione e la fulmineità dell’azione di Mosca hanno spiazzato l’Occidente e gli Usa in particolare, i cui servizi di intelligence non hanno brillato molto, mancando di prevedere un’iniziativa militare di tale portata, evidentemente preceduta da preparativi che non avrebbero dovuto sfuggire. La reazione è stata quella di applicare alla Russia sanzioni economiche e diplomatiche virtualmente inutili, che hanno ottenuto l’unico risultato di pesare significativamente sugli scambi commerciali di alcuni Paesi, in primis l’Italia, che avevano nella Russia un ottimo mercato: il danno oltre la beffa, verrebbe da dire.
La situazione, con le dovute differenze, si sta ripetendo in Siria. Connotata, come ricordato sopra, da uno strabismo “genetico”, la diplomazia Usa continua ostinatamente a mantenere un’acritica alleanza coi Paesi islamici sunniti (Arabia e Qatar in testa) considerando tuttora l’Iran come il proprio nemico principale nell’area mediorientale. Un atteggiamento che deriva, con tutta evidenza, dal “peccato originale” all’epoca del regime di Khomeini, quando gli “studenti islamici” assaltarono l’Ambasciata Usa di Teheran e tennero in ostaggio per mesi il personale statunitense all’interno di essa. Ciò provocò un’insanabile rottura fra i due Paesi, mai ricomposta nonostante le recenti, reciproche aperture diplomatiche che ora rischiano un nuovo raffreddamento con l’insediarsi della prossima Amministrazione a Washington. Questa scelta strategica cruciale, che meriterebbe un discorso di approfondimento a parte, sta alla radice delle successive politiche Usa relative al Medio Oriente, rivelatesi negli ultimi tempi fallimentari. Ciò è vero in particolare per la crisi siriana, dove il sostegno fornito da Washington all’opposizione nel pervicace tentativo di far cadere il pur deprecabile tiranno Bashar al-Assad ha finito col favorire la componente jihadista, l’ala integralista dei ribelli che nulla ha di democratico e che anzi ha senz’ombra di dubbio favorito l’ascesa dell’Isis da gruppuscolo di fanatici a “Stato islamico” radicato sul territorio e con ramificazioni terroristiche ovunque, atomizzate e incontrollabili. L’ambiguità con cui gli Usa e i loro alleati hanno a lungo “combattuto” contro l’autoproclamato “califfato” ne ha consentito l’allargamento all’Iraq e, soprattutto, al web e al sistema mediatico in generale, consentendogli di attrarre adepti su scala planetaria, ben oltre i confini geografici del territorio sottoposto a occupazione militare.
Una situazione incancrenita risolta, ancora una volta, dalla risolutezza di Putin, che non si è fatto scrupolo di intervenire direttamente e pesantemente nel conflitto, non solo con l’appoggio aereo, ma anche con l’invio di truppe di terra, cosa che la Casa Bianca ha sempre escluso di voler fare, sia per convinzione dello stesso Obama che per orientamento dell’opinione pubblica statunitense, in particolare fra l’elettorato democratico. Il risultato è che il conflitto ha rapidamente visto prevalere i governativi, rafforzando la posizione di Assad e consentendogli di riprendere Aleppo e arrivare a una tregua negoziale in posizione di forza nei riguardi dell’opposizione interna, anche se molto meno rispetto agli altri Paesi interessati.
Ora, a ridisegnare i confini del Medio Oriente a cent’anni dall’Accordo Sykes-Picot fra Regno Unito e Francia, saranno ben altri protagonisti, a testimonianza di come sono cambiati gli equilibri mondiali. La traballante tregua decretata dalla Russia sembra reggere un po’ meglio delle precedenti, portando all’avvio di negoziati dall’esito incerto. Quello che invece è già chiaro è che al tavolo presieduto da Mosca, insieme a Governo e opposizioni siriani, sono seduti Turchia e Iran ed esclusa la nazione curda, mentre Washington rimane alla finestra e l’UE non compare nemmeno sullo sfondo.
In questo scenario, risulta velleitaria e persino meschina la ripicca dell’Amministrazione Obama di espellere alcuni esponenti russi “rei” di aver influito sulle recenti elezioni Usa, tale da consentire a Putin di mostrare lungimirante signorilità nel “congelare” un’eventuale rappresaglia, riservandosi di valutare gli atteggiamenti del prossimo inquilino della Casa Bianca. Tanto sa già che Trump ha in mente un disimpegno dal fronte siriano e in generale dai vari impegni esteri che il ruolo di superpotenza imporrebbe agli Stati Uniti. Ma il neo-eletto Trump sembra voler riportare tutta l’attenzione all’interno dei propri confini, mostrando già il fiato corto e lo sguardo miope che rischiano di connotare il suo mandato. E di rendere il suo slogan Make America Great Again, “fare di nuovo Grande l’America”, solo l’ennesima insensatezza sparata a vanvera dal populista di turno.
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