Terrorismo Isis: Israele non deve isolarsi

Le modalità con cui, a Gerusalemme, un camion ha travolto ed ucciso quattro soldati israeliani, ferendone un’altra dozzina, le conosciamo bene. Sono quelle, purtroppo, già viste all’opera l’estate scorsa a Nizza e, poco prima di Natale, a Berlino. Si tratta di una delle tecniche con cui l’Isis, servendosi anche di semplici “cani sciolti”, punta ad uccidere quante più persone possibili. Assalti mortali da compiere ovunque nel mondo. All’improvviso, senza che sia praticamente possibile una vera e propria prevenzione contro questo genere di attentati.

Israele non era stata finora colpita dai terroristi Isis. Prevedibile però che, come un po’ tutto l’Occidente, prima o poi finisse nel mirino di questi portatori di morte. Siamo certi che grazie alla loro ben nota efficienza, gli apparati di sicurezza di Tel Aviv sapranno individuare gli strumenti investigativi e le misure operative più idonee per tutelarsi da future minacce. Non si può però immaginare di agire da soli.

C’è una globale strategia del terrore con cui tutti dobbiamo fare i conti. Per questo, e lo si è già detto in altre occasioni, servono la più ampia collaborazione e la massima unità di intenti tra i diversi Paesi. Non sono ammesse reticenze e vanno denunciate quelle eventualmente esistenti. D’altronde la Turchia di Erdogan che spesso è parsa giocare col fuoco, per lo più in funzione anti curda, è rimasta ferocemente scottata dall’avanzata del terrorismo islamico.

Adesso anche Israele si trova sotto il tiro del fondamentalismo. Evidente dunque che lo Stato ebraico vada associato in questa lotta che si preannuncia dura e senza quartiere. Vi è però all’orizzonte una faccenda che, da sempre, rappresenta un ostacolo a quella collaborazione a tutto a campo tra tutti gli attori presenti nella regione mediorientale. Stiamo accennando all’irrisolta questione palestinese che, pur non interessando affatto all’Isis, permane come un’ombra proprio nei confronti di quell’universo islamico non integralista che sarebbe indispensabile ricompattare per una più proficua intesa contro il terrorismo. E qui in effetti sta un po’ lo snodo cruciale del Medio Oriente.

Giorni fa il Consiglio dell’Onu ha emesso una risoluzione di condanna degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, territorio occupato dal 1967 dopo la guerra dei Sei giorni, che rappresenta il nucleo centrale del futuro Stato palestinese. Per la prima volta gli Stati Uniti non hanno posto il tradizionale veto alla mozione. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu ha gridato allo scandalo, minacciando quasi di rompere le relazioni diplomatiche con i Paesi firmatari del documento. Una reazione spropositata che, a ben vedere, indebolisce Israele sulla scena internazionale perché lo rende più isolato. Sappiamo bene che, in ogni nazione alberga un mai sopito orgoglio isolazionista, una velleità di autosufficienza di cui lo Stato ebraico è dotato, per comprensibili ragioni storiche, ben più di altri, eppure Netanyahu dovrebbe rendersi conto che proprio l’isolamento gioca contro a sfavore del suo Paese.

Certamente non dobbiamo mai dimenticare che Israele è la sola vera democrazia in tutto il Medio Oriente. Prezioso alleato quindi da proteggere dinanzi a qualsiasi aggressione, da qualunque parte provenga (e che peraltro sa difendersi da solo nel migliore dei modi). E’ però altrettanto vero che questo suo arroccarsi di fronte all’indifendibile occupazione dei territori palestinesi non aiuta. E l’isolamento può contribuire a rendere più insicuro l’intero Paese, accentuandone la vulnerabilità.

Per contro è deplorevole e sommamente vergognoso l’atteggiamento di Hamas che dalla striscia di Gaza gioisce per questo nuovo fatto di sangue. E’ davvero penoso vedere come i suoi dirigenti siano più interessati a fomentare l’odio per Israele piuttosto che ad impegnarsi per sviluppare economicamente e socialmente il territorio da loro controllato. Fare di Gaza una piccola Svizzera mediorientale, questo dovrebbe essere il vero obiettivo della sua leadership e invece si preferisce farne una prigione a cielo aperto, in barba alle sofferenza inferte alla sua stessa popolazione. Tutto pur di alimentare l’avversione contro Tel Aviv.

Come sempre gli estremismi – quello di Hamas e quello ultranazionalista dello Stato ebraico – si toccano e, in fondo, si aiutano mutualmente. Uno alimenta l’altro, in un reciproco sostegno, forse neanche troppo involontario. Da qui, rabbia e radicalizzazione. Da qui, un terreno nel quale può anche infiltrarsi il fondamentalismo nemico della civiltà.

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