Via Padova, le molte declinazioni del termine “integrazione”

Integrazione sembra essere diventata la parola chiave delle maggioranze di centrodestra a palazzo Marino, al Pirellone e a Palazzo Chigi. Integrazione,una svolta dopo le reazioni di pancia successive ai disordini di via Padova. Forse qualcuno si è accorto che da situazioni inestricabili create dall’assenza di Stato e comune dal territorio non si esce con i soliti slogan “macho” e con 170 poliziotti in più a pattugliare Milano.

Eppure, se finora si è sbagliato a trattare la questione immigrati esclusivamente in termini securitari, a me quella di via Padova non pare questione di mera integrazione. Mi pare invece proprio questione di sicurezza che richiede interventi atti  a ristabilire la legalità e il rispetto delle regole nel quartiere multietnico, ghettizzato e degradato ma pur sempre soggetto alla legislazione italiana,

Non è solo una questione di mancata integrazione perché il 19enne ucciso apparteneva alla comunità  egiziana, la più antica dopo quella filippina in città. Dalla sua scarna biografia, inoltre, si apprende che era un ex ”minore non accompagnato”, sbarcato in Italia dalla Libia e accolto in comunità e poi, dopo la scuola, aveva trovato regolare come panettiere. Era in regola da poco, portava il piercing al labbro e conviveva. A me pareva ben integrato. Chi lo conosceva dice che “voleva essere italiano”.

Quanto ai presunti killer, assassini – pare – per un pestone sull’autobus, se davvero sono latinos, appartengono alle comunità meglio inserite da noi e magari in tasca, accanto al coltello, hanno pure il permesso di soggiorno. Vivono chiusi in bande, impermeabili alla società milanese, figli di tanti onesti lavoratori che si spaccano la schiena per quattro soldi tutto il giorno. Ma quello del branco è un problema comune a tanti loro coetanei italiani disadattati. Dunque, storie tese di periferia, di lotta quotidiana, di rivalità da marciapiede che non vanno sottovalutate, perché l’esplosione di violenza cela probabilmente tensione interetnica nella quale gli italiani fanno da spettatori passivi. Questo è il problema, la nostra passività. Non sono affari loro ,queste storie, come chi ci amministra ha colpevolmente pensato. A dar retta alle sentinelle del quartiere, i “pretacci” ambrosiani tanto vituperati sulla prima pagina del Corriere di martedì dal bolognese Panebianco, è una questione da servizi sociali che in quell’angolo di Milano sono stati troppo a lungo assenti soprattutto nelle scuole. Lo conferma  una recente ricerca della Caritas Ambrosiana: il 30% dei giovani stranieri può essere inserito nella tipologia dei “ribelli. Sono maschi nati all’estero, spesso arrivati da poco in Italia che esibiscono un forte legame con il paese d’origine. Le difficoltà del ricongiungimento danno origine allo scontro con i genitori.

Serve dunque il ripristino della legalità, il controllo del territorio, la repressione dello spaccio da parte delle forze dell’ordine. Ma occorre avviare contemporanei controlli a tappeto della Finanza su chi affitta in nero e su chi subaffitta. Poi occorre dichiarare guerra all’abbandono scolastico, tornare a presidiare le scuole del ghetto, chiedersi per quale motivo tanti adolescenti stranieri non arrivano alle superiori e che futuro avranno. Non vi sono altre strade per disinnescare la polveriera dei nuovi ghetti, fermezza con i violenti, ma efficace intervento sociale. E su questo Milano ha un modello solidale cui attingere, se davvero cerca una svolta.

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