L’arrivo di Trump costringe la sinistra a pensare?
Ci sono due modi per guardare ai profondi cambiamenti iniziati nel 2016, che stanno decretando la fine del neoliberismo così come il 1989 lo fu per il comunismo. Limitarsi a seguire gli stereotipi propinati dai media (controllati da quell’1% che, come ci ricorda l’Oxfam, detiene più ricchezza del restante 99%) che vorrebbero indurci ad arroccarsi di fronte al cambiamento in atto, a dare la colpa al suffragio universale, alle notizie della rete, agli hackers e ai media russi. Oppure condurre il dibattito su quanto è in gioco in questa fase. Pensare anziché fare atto di fede, pensare anziché tifare.
L’avvio ufficiale della presidenza degli Stati Uniti da parte di Donald Trump, pone delle sfide ineludibili per le culture riformatrici, in particolare per quella cattolico-democratica. Ma per coglierle bisogna esser disposti ad ammettere dei dubbi, altrimenti il discorso è già chiuso in partenza.
La vittoria di Trump (ma poteva esser benissimo quella del socialista Bernie Sanders, se non fosse stato fraudolentemente eliminato dalla corsa alla nomination dal suo stesso partito) è dovuta al fatto che i ceti lavoratori, stremati da oltre un trentennio di politiche neoliberiste e militariste, proseguite sia con i presidenti di colore democratico che con quelli di colore repubblicano, hanno votato in massa per il candidato alternativo ad un tale sistema fintamente bipolare e profondissimamente corrotto, oltre ogni immaginazione (come attestano le email spifferate da wikileaks e il pizzagate che sta facendo tremare i piani alti della capitale americana).
E le priorità di Trump sembrano coincidere in larga misura con quelle attese dalla classe media che chiede pace, lavoro e più stato sociale. Un programma che spiazza i progressisti al di là e al di qua dell’Atlantico. Infatti, è gravissimo e suona come sonoro schiaffo per la sinistra, il fatto che sia Trump, che al più è espressione di un milieu conservatore-realista in cui si vede l’impronta del vecchio Kissinger (che sta facendo fuori quel manipolo di esaltati dei neocorservatori che con le loro strategie in questo secolo hanno fatto scorrere fiumi di sangue nel mondo), e non i progressisti a volere la de-globalizzazione, il protezionismo economico in funzione della tutela del lavoro in patria e della reindustrializzazione della nazione, l’intervento pubblico per un grande piano di ammodernamento delle infrastrutture interne, finanziato con l’indebitamento sovrano ed una drastica riduzione delle spese militari.
La credibilità delle culture riformatrici è ancor più messa in discussione dalle scelte di politica estera della nuova Amministrazione americana: l’archiviazione della Nato, la fine delle guerre e della destabilizzazione degli stati in Medio Oriente e nell’Est europeo, l’interruzione delle linee di sostegno occidentale al terrorismo internazionale, la fine dell’insensata politica aggressiva di Obama verso la Russia, che ha rischiato di far sprofondare l’Europa nell’incubo nucleare.
Orbene, anziché avviare un energico processo di riconoscimento degli errori per invertire la linea a 180 gradi, le classi dirigenti progressiste sembrano fare l’esatto contrario. Si arroccano attorno alla Merkel, assurta dalla supercasta globalista a loro portavoce globale, quasi a contrapporsi al nuovo corso americano. Un disallineamento di posizioni così plateale tra Washington e Berlino che non si vedeva da settant’anni. Con il rischio che le sinistre, o almeno i loro vertici, stiano arroccate assieme alla cancelliera tedesca nella difesa strenua della globalizzazione selvaggia, del Ttip, dell’austerità, della assurda e irresponsabile strategia di militarizzazione dei rapporti con la Russia, della continuazione della destabilizzazione del Medio Oriente, di tutte le guerre della Nato, presenti e future.
Una simile strategia, oltre a spappolare la credibilità delle forze riformatrici agli occhi dei ceti lavoratori impoveriti ed in cerca di soluzioni possibili, possibilissime perché dipendono principalmente dalla politica, sta mettendo a repentaglio il futuro dell’Unione Europea, vista sempre più come una sorta di lager tedesco da cui è preferibile fuggire anziché come una speranza.
Si tratta di questioni molto complesse: i nodi politici però sono questi e concernono la democrazia e la qualità ed il pluralismo dell’informazione, le politiche economiche, monetarie e del lavoro, la pace e le relazioni internazionali. I gruppi dirigenti delle forze politiche, sociali, sindacali del campo riformatore hanno di fronte una grande responsabilità: cercare di interpretare le implicazioni della presidenza Trump per la politica, per il Paese, per l’Europa, oppure starsene comodamente in poltrona ad aspettare che arrivi il momento in cui i vari soloni come Saviano o Scalfari autorizzino la sinistra a fare seriamente i conti con la rivoluzione che sta avvenendo. Ma potrebbe essere troppo tardi.
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