Ma quale populismo! È popolo contro establishment
Bisogna esser grati a Romano Prodi che in un’intervista a Sky Tg24 ha avuto il coraggio di indicare un dato che è sotto gli occhi di tutti, ma che nessun personaggio del suo calibro aveva finora osato dire in pubblico: se Marine Le Pen vincerà le prossime presidenziali francesi, l’Unione Europea è finita. Senza Francia, infatti, non c’è Europa, rimarrebbe solo l’incubo di un impero tedesco da cui tutti fuggirebbero. Va, dunque, guardata in faccia la realtà, anche quando questa sconvolge i nostri schemi ed infrange i canoni ideologici del politicamente corretto, per tentare di organizzare una risposta coerente con le categorie e le culture politiche di appartenenza.
Temo che risulti difficilmente comprensibile ciò che sta accadendo in Occidente senza riconoscere che, a partire dar referendum britannico del giugno scorso, siamo entrati in una fase “rivoluzionaria”, di profondi e rapidissimi cambiamenti, innescati dalla rivolta dei ceti lavoratori, del popolo contro le élites globaliste, fautrici di una globalizzazione selvaggia che ha impoverito la classe media, creato disuguaglianze inimmaginabili, umiliato il lavoro, strapazzato in tante occasioni il diritto internazionale con continue guerre d’aggressione e destabilizzazioni, con milioni di civili morti e di profughi. Guerre e ingiustizie compiute in nome di una visione unipolare del mondo, in cui gli interessi della supercasta più ricca diventano verità, attraverso i fake media; legge, attraverso i trattati transnazionali che passano sopra alla sovranità popolare; e pseudo-valori morali inculcati con l’egemonia culturale e la manipolazione delle coscienze e della psicologia di massa.
Un quadro di profonda ingiustizia e menzogna che ha provocato nel sentire popolare un naturale rigetto e la domanda di una svolta, di un cambiamento netto e rapido. Il re è nudo, l’establishment globalista ha gettato la maschera e viene vista da una parte crescente di elettori, anche grazie alle straordinarie opportunità offerte dalla rete, per quello che è: un progetto di oppressione, sfruttamento e dominio su scala globale, dai tratti trans-umani, anti-umani ed esoterici, contro il quale vanno mobilitate tutte le forze democratiche in una battaglia decisiva per il futuro dell’umanità, non meno di quella contro i totalitarismi del secolo scorso.
Il primo passo per il riscatto e la liberazione consiste allora nel riconoscere la validità delle istanze popolari contro i soprusi delle élites. E di rigettare le false spiegazioni fornite dall’establishment circa il comportamento elettorale del popolo: il popolo chiede il cambiamento non a causa degli hackers russi, o delle fake news in rete, che per quanto ce ne siano, non saranno mai paragonabili a quelle propinate in questi anni dai media ufficiali, sulle guerre, sul terrorismo, sull’andamento dell’economia. No, il popolo vuole il cambiamento perché il progetto globalista lo ha dissanguato, gli ha peggiorato o tolto il lavoro e le tutele sociali, gli ha rubato il futuro e la speranza. Questa rivolta della classe media è un fiume in piena e potenzialmente capace di travolgere ogni ostacolo che impedisca la rinascita democratica, sociale ed economica a cui tende. Altroché xenofobia, razzismo, misoginia, omofobia e populismo, che sono semmai posizioni estreme di alcune frange ultraminoritarie, peraltro indotte dalle spregiudicate politiche neoliberiste dell’establishment.
Di fronte a questo enorme movimento popolare di opinione che sta cambiando il volto dell’Occidente, tocca purtroppo constatare che l’establishment europeo sta reagendo a muso duro: dopo le miopi e incredibili prese di posizione di Juncker, della Merkel, di Tusk (che assomigliano a quelle assunte a suo tempo dal Politburo del Pcus, incapace di comprendere l’imminente crollo dell’Urss) pure il presidente della Bce Mario Draghi ha usato una arroganza del tutto inappropriata alla delicatezza del momento, contro le legittime richieste di porre fine all’austerità intrinseca alla moneta unica.
In Italia, fallito il progetto di Renzi, il cui scopo si è rivelato essere quello di confondere l’elettorato che cerca il cambiamento, con dei diversivi come le riforme costituzionali, si sta andando quasi per inerzia verso il naturale completamento della legislatura, lasciando in questo modo decidere il futuro dell’Europa agli elettori francesi, e olandesi, chiamati al voto nella prossima primavera.
La Francia appare, ancora una volta nella storia, il Paese decisivo per i destini dell’Europa, e non solo di una unione monetaria virtualmente già fallita, nonché di una Nato desueta e costosa, quanto aggressiva. Le élite globaliste, silurando la candidatura all’Eliseo di François Fillon, in favore del candidato pro-establishment doc, il banchiere d’affari Emmanuel Macron, stanno conducendo un gioco assai pericoloso: non appena emergerà il carattere artificiale e mediatico della candidatura dell’ex ministro dell’economia di Hollande, la corsa per l’Eliseo potrebbe effettivamente riservare sorprese.
Ma il dato ancor più preoccupante, per quanti appartengono a culture politiche di stampo riformatore, è dover constatare il pressoché generale appiattimento della sinistra alla visione del mondo, agli interessi, ed all’agenda, non dichiarata ma concretissima, della super casta globalista. Una subalternità culturale e politica, che se non viene rapidamente infranta, rischia di portare le forze politiche progressiste alla sconfitta anche nei Paesi europei in cui si voterà nell’arco dei prossimi dodici mesi, nel cui novero vi è anche l’Italia. Di questo si dovrebbe discutere a sinistra anziché solo di primarie, congressi, partiti, scissioni, collegi. Prima che sia troppo tardi.
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