10 febbraio 1947: settanta anni fa l’Italia perdeva l’Istria
A rileggere i documenti che circolavano nel 1946, nelle fasi conoscitive che precedettero la firma del trattato di pace, siglato il 10 febbraio 1947, può quasi dirsi che dobbiamo alla posizione francese la perdita della fascia costiera dell’Istria.
Al momento infatti di trovare una soluzione per i nostri confini orientali, le potenze vincitrici: Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna elaborarono quattro diverse proposte. La più favorevole all’Italia era quella americana che manteneva sotto la nostra sovranità tutta l’Istria occidentale con l’italianissima città di Pola. Non dissimile era l’ipotesi britannica con un confine leggermente più a ovest, che lasciava agli jugoslavi le miniere dell’Arsa, salvaguardando però tutte le città istriane della costa. Sbilanciato in modo netto a favore della Jugoslavia era, ovviamente, il piano sovietico che, oltre all’intera penisola istriana, intendeva concedere agli slavi anche Trieste e Gorizia.
Come si vede, le posizioni in campo rispecchiavano già con puntuale esattezza i futuri schieramenti di una Guerra fredda ormai in embrione: inglesi ed americani a sostegno dell’Italia, sovietici a tutela della Jugoslavia. Con questo rapporto di forze, di due a uno, la soluzione prefigurata dagli anglosassoni avrebbe forse prevalso se fosse stata accolta anche dalla Francia, facendo definitivamente pendere la bilancia dalla nostra parte. I francesi però, anziché unirsi agli alleati occidentali, preferirono dar sfoggio alla loro inguaribile smania di distinguersi in ogni situazione. E così formularono un compromesso che, certo, lasciava Trieste e Gorizia nelle nostre mani, ma ci privava dell’Istria occidentale. Alla resa dei conti quella transalpina divenne la base di partenza per le trattative e da lì non ci mosse più, lasciando cadere nel nulla le iniziali proposte angloamericane, a noi indubbiamente più favorevoli.
Nel dire queste cose non si vuole certo riattizzare vecchi revanscismi, da considerarsi fortunatamente superati dalla nuova dimensione europea, ma riflettere piuttosto sulla nostra storia e comprendere il dramma della popolazione istriana, costretta ad abbandonare la propria terra.
Pagavamo indubbiamente il prezzo dell’aggressione alla Jugoslavia che nel 1941 aveva condotto all’annessione della Slovenia e della Dalmazia, abitate da popolazioni slave, cui erano seguite dure repressioni. Se però poteva avere un senso cedere l’enclave dalmata di Zara o una città plurinazionale come Fiume, assai diversa era la situazione dell’Istria occidentale, con città come Pola, Parenzo e Rovigno abitate in nettissima prevalenza da italiani. Non a caso per assumere il totale controllo su queste terre, gli jugoslavi tra il 1943 e il 1947 diedero vita ad una vera e propria pulizia etnica. Se il fascismo aveva imposto la cultura e la lingua italiana con l’assimilazione forzata, ricorrendo anche alla violenza, assai più cruenta e radicale fu la reazione dei miliziani di Tito che puntò a cancellare dall’Istria qualsiasi presenza italiana.
L’esodo di 300mila italiani fu la conseguenza di questa ferocia, testimoniata dalle migliaia e migliaia di morti nelle foibe. Un dramma nella più grande tragedia della Seconda guerra mondiale, al termine dalla quale agli istriani toccò pagare un prezzo altissimo, sull’altare di una spartizione territoriale voluta dalle grandi potenze.
Oggi, settanta anni dopo, Italia, Croazia e Slovenia sono parte dell’Unione europea. Una cornice finalmente sovranazionale, terreno sicuramente adatto per una completa pacificazione nel pieno rispetto di tutte le minoranze: quella italiana rimasta in Istria e quella slovena presente in Friuli-Venezia Giulia. Un clima propizio per una reciproca comprensione di un difficile passato e per una condivisa edificazione di un promettente avvenire. Quando da più parti si sente magnificare il ritorno agli Stati nazionali a scapito del percorso di integrazione europea, bisognerebbe pensare all’Istria. Una terra che ha vissuto sulla propria pelle le tremende lacerazioni causate dal veleno nazionalista.
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