Memorabile edizione de “I maestri cantori di Norimberga” al Teatro alla Scala
L’opera di Wagner diretta con raffinato equilibrio lirico da Daniele Gatti.
Due grandi portali e poche colonne monche sono tutto ciò che resta della Chiesa di Santa Caterina a Norimberga, attorniate da impalcature metalliche così luminose da sembrare di argento in contrasto con la grigia pietra offesa dalle bombe. La struttura, invero monumentale e di indubbio effetto, gira su se stessa e crea i diversi ambienti dell’opera. Al fondo del palcoscenico appare la sagoma di una Norimberga in rovina e le gru che fanno comprendere come la ricostruzione della città, dopo il secondo conflitto mondiale, sia in corso. È da qui che Harry Kupfer, autore dell’allestimento proveniente dall’Opernhaus di Zurigo de I maestri cantori di Norimberga (Die Meistersinger von Nürnberg) di Wagner in scena al Teatro alla Scala, muove le mosse per raccontare la sua idea registica di un’opera divenuta simbolo di un nazionalismo tedesco portato alle conseguenze più estreme e deteriori dal nazismo, che ha travisato, utilizzando a proprio interesse le ben note frasi finali per fare dei Meistersinger l’emblema di uno spirito pangermanistico al quale Wagner stesso era estraneo, né forse immaginava questa sua partitura assumesse nel tempo.
Il bell’allestimento scaligero lo dimostra. Lo spettacolo, ma ancor più, come vedremo, l’impareggiabile direzione di Daniele Gatti guardano verso altri orizzonti. Essi vanno individuati nell’idea che l’arte vada intesa come fondamento di civiltà capace di vincere sulle distruzioni della guerra, di risorgere con slancio utopico attraverso gli ideali di appartenenza a un senso di collettività e di saggezza che hanno valenza politica solo nell’ottica di guardare al futuro con responsabilità comune e non individuale. La rigida ortodossia delle regole dei Cantori di Norimberga, estremizzata dalla pedanteria stizzita dello scrivano comunale Beckmesser; l’involo sovversivo e “nuovo” dell’aristocratico Walther; la vocazione democratica del ciabattino Sachs, che comprende il valore dell’evoluzione del bello ed è disposto a sacrificare il proprio interesse per far sì che Walther vinca la gara dei cantori e si unisca a Eva; infine la sincera determinazione di Eva nel congiungersi al prescelto Walther, contribuiscono al raggiungimento di quel finale lieto e trionfante che non è la celebrazione di una supremazia culturale o di razza, ma di un ordine supremo terrestre di armonia e pace.
Questo sembra comunicare lo spettacolo, ma soprattutto una direzione d’orchestra illuminata da una luce tersa e pura, che avvolge la partitura in un velo di rasserenante equilibrio che la priva di ogni enfasi e retorica, o peggio di inopportuni risvolti ideologici sulla superiorità dell’arte tedesca. I momenti di lirismo sono memorabili. Come il Preludio al terzo atto e il Quintetto. Quest’ultimo esce della bacchetta dal maestro milanese e dalla superba orchestra scaligera trasfigurato in estasi fra il nostalgico e il celestiale, vicina a certi umori musicali che evocano trasparenze straussiane e fanno pensare al finale del Rosenkavalier. Ma non si creda che visione lirica significhi povertà di suono. Nelle pagine pubbliche e corali, come in quelle dove il canto di conversazione, che è l’ossatura portante di questa colossale partitura, richiedono spiccato senso del teatro, la direzione di Gatti diventa analitica nel contrappunto. La scena della Baruffa è un capolavoro di indimenticabile equilibrio polifonico. I ritmi studiati nel dettaglio e il declamato dialogico reso vivo e lucido nel cogliere il tono della commedia, mai per un attimo tentato dalle lusinghe della comicità che, quando necessaria, lo è solo per descrivere i paradossi dell’ottusità umana nel chiudersi dinanzi al rinnovamento salvifico dell’arte. Per non parlare di quella vocazione, tutta tedesca, al corale luterano che vien fuori in alcuni passi esaltati dal superbo Coro scaligero istruito da Bruno Casoni, che sa anche trionfare in bravura nelle grandi scene pubbliche, come quella che apre l’ultimo quadro dell’opera.
Insomma, un’esecuzione musicale superba, fra le migliori sentite negli ultimi anni alla Scala, che avrebbe portato questa edizione dei Meistersinger vicina alla perfezione se il cast vocale avesse soddisfatto nelle sue componenti essenziali. Invece, ad eccezione del concreto e immedesimato Michael Volle, un Hans Sachs asciutto e mai eccessivo nel gesto scenico, eppure umanissimo, che si dimostra dunque ottimo attore e cantante di valore (bravissimo nei suoi monologhi, ma soprattutto nel duetto con Beckmesser che precede la Baruffa), pur con qualche lieve segno di stanchezza, e di un Markus Werba, Beckmesser, aitante e meno pedante del solito (per volere della regia stessa), gli altri sono solo degni di citazione, ma non sempre di lodi indiscusse.
La bella Jacquelyn Wagner è una Eva dalla voce lirica pura quanto basta, ma di volume limitato e con qualche squilibrio in acuto e Albert Dohmen un Pogner di gran scuola nel canto tedesco. Funzionali Peter Sonn, David e Anna Lapkovskaja, Magdalene. Anello debole del cast è il tenore Erin Caves, che nei panni di Walther von Stolzing non rovina la festa, e per di più in un ruolo essenziale nell’economia dell’opera come questo, solo perché Gatti lo sostiene e lo aiuta a non combinare troppi guai vocali. Ben amalgamata l’ingente massa di ruoli di contorno, che contribuiscono al trionfale ritorno sul palcoscenico scaligero dei Meistersinger a ventisette anni dall’edizione diretta alla Scala da Wolfgang Sawallisch.
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