JFK 100
John F. Kennedy, l’uomo che siamo abituati a vedere nel fulgore degli anni, con una giovane moglie e due figli in tenera età, compirebbe 100 anni. Già solo questo ci dà la misura di quanto tempo sia passato da quel lontano 22 novembre 1963, quando a soli 46 anni fu assassinato a Dallas.
Il suo paese natale era Boston, dove venne al mondo il 29 maggio 1917, da Joseph Kennedy e Rose Fitzgerald, secondo di nove figli, quattro maschi e cinque femmine. Una famiglia tra le più ricche e potenti d’America. Il padre era uno spregiudicato magnate della finanza, di tendenze isolazioniste e con una smisurata ambizione per i propri figli maschi. Per il primogenito Joe, nato nel 1915, auspicava una brillante carriera politica. I ragazzi e le ragazze Kennedy crebbero col gusto della sfida e con la consapevolezza di essere destinati a far qualcosa di grande.
Quando nel 1944 Joe morì nei cieli europei, uno dei tanti giovani americani caduti per la nostra libertà, toccò a John (o Jack come veniva chiamato in famiglia) prenderne il testimone. Voleva fare il giornalista, ma si tuffò con estrema determinazione in politica, ovviamente nelle fila democratiche, il partito dei cattolici e degli immigrati, come erano i Kennedy, provenienti dall’Irlanda e per questo ai margini degli esclusivi circoli protestanti che ruotavano attorno al Partito repubblicano.
Nel 1946 conquistò un seggio al Congresso come deputato del Massachussets, il suo stato natale; divenne senatore nel 1952 e l’anno successivo sposò Jacqueline Bouvier, da cui ebbe tre figli, Caroline, John jr. e Patrick, morto dopo appena due giorni di vita. La Casa Bianca fu conquistata nel 1960, battendo di stretta misura, il repubblicano Richard Nixon. Il resto lo conosciamo a memoria: il confronto con la Russia, la crisi di Cuba, il bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, i diritti civili dei neri, la corsa verso lo spazio. Dallas spezzò una presidenza che, dopo qualche tentennamento, stava davvero cominciando ad esprimersi per il meglio.
Quel giorno il mondo intero sentì di aver perso un grande protagonista, forse il leader che più di ogni altro, per la sua energia e per la sua vitalità, impersonava le speranze di tutti. A un secolo dalla nascita e a oltre mezzo secolo dalla morte, cosa rimane di lui? Cosa può dirci oggi il giovane presidente della Nuova frontiera?
Nei decenni che sono trascorsi da quel lontano 1963, si è passati da un’eccessiva beatificazione a una smodata denigrazione. Un approccio totalmente sbagliato, come sempre lo sono le posizioni manichee. Kennedy non fu né un santo, né un eroe (anche se in guerra, nel Pacifico, diede prova di un coraggio non comune), ma neppure può venir liquidato come un inguaribile libertino o un mediocre privilegiato che si è aperto la strada solo grazie al denaro del padre.
E’ indubbio che la sua famiglia fosse ricchissima, ma questo rappresentò un elemento di maggior responsabilità verso gli altri piuttosto che un tirare a campare nell’ozio e nel divertimento. La sua fu una carriera politica all’insegna della competenza e della massima attenzione a tutti i grandi temi del suo tempo, con una profondità di analisi, riscontrabile in ben pochi altri leader politici. Basta rileggere i suoi interventi in Senato, riportati nel libro “Strategia di pace”, per osservare con quanta cognizione di causa sviscerava i problemi del momento.
Un contegno e un senso della vita pubblica che avremmo ritrovato negli anni della Casa Bianca. Quando vi fu il disastroso sbarco alla Baia dei Porci, operazione concepita dalla precedente amministrazione Eisenhower, fatta propria fidandosi della Cia e dei militari, andò in televisione e davanti a milioni di americani si assunse la totale responsabilità di un fallimento che certo non era solo suo. Cose che di rado si vedono in politica.
Due anni, nel luglio 1963, promise ai berlinesi che gli Stati Uniti non li avrebbero mai lasciati soli. Quale abisso rispetto ad un’America, come quella odierna, ripiegata su se stessa che rinuncia alla sfida ambientale per difendere gli interessi della lobby delle energie fossili. Non una nazione timorosa che si trincera dietro ai muri, ma un Paese aperto verso il mondo intero.
Di Kennedy in definitiva rimane questo. Un profondo senso del dovere, un’indiscussa capacità di leadership, un’inesauribile volontà di spronare i propri concittadini oltre le difficoltà contingenti. Qualità che ancor oggi distinguono il mediocre politicante, dedito a pensare al proprio futuro, dal grande statista, dedito a progettare il futuro del proprio Paese.
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