Trump, America first
Come era ormai chiaro a tutti, il presidente Trump ha annunciato ufficialmente il ritiro degli Usa dall’Accordo sul Clima di Parigi sottoscritto nel 2015 dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Un ulteriore segnale dell’inadeguatezza e della pericolosità di questo miliardario populista giunto alla guida della nazione più potente del mondo cavalcando rabbie, insoddisfazioni e frustrazioni di quella parte della middle class americana bianca e conservatrice che da tempo covava sentimenti di rivalsa, solo in parte giustificabili con le storture e i danni provocati dal sistema economico-finanziario neoliberista, che concentra la ricchezza a beneficio di pochissimi, depauperando tutti gli altri. L’uscita dall’Accordo sul Clima può essere considerato l’ultimo atto del recente tour internazionale di Trump, a cavallo fra medioriente ed Europa, che ha del tutto palesato gli indirizzi della sua Amministrazione, peraltro facilmente individuabili già all’epoca della sua campagna elettorale urlata e costantemente sopra le righe, infarcita di bugie, gaffes, attacchi strumentali e banalità come mai prima nella storia democratica americana. Ne risultano una serie di premesse che non lasciano intravedere nulla di buono, come molti paventavano ancor prima della sua elezione. Proviamo ad analizzare sommariamente alcuni punti.
Arabia. La prima tappa del giro diplomatico di Trump è stata l’Arabia Saudita, scelta non casuale volta a ribadire la centralità dell’alleanza con la monarchia di Riyad, uno dei regimi più retrivi e integralisti di tutto il mondo musulmano, dove la violazione dei diritti umani è cronaca quotidiana, ma anche primo produttore mondiale di greggio, che investe gran parte dei petrodollari ricavati dal commercio dell’oro nero acquistando titoli di Stato americani, contribuendo così a tenere in piedi il colossale debito pubblico di Washington. Con i sauditi Trump ha sottoscritto un contratto per la fornitura di armi per la spaventosa cifra di 110 miliardi di dollari. Non staremo a calcolare quanti ospedali, scuole e impianti di potabilizzazione d’acqua si potrebbero costruire con quei soldi, contribuendo a migliorare le condizioni di vita di milioni di esseri umani. Ci limitiamo a ricordare che –come noto a chiunque segua un minimo le vicende mediorientali- l’Arabia Saudita è la maggiore finanziatrice del fondamentalismo islamico, compreso quello jihadista del quale l’Isis è oggi l’espressione più tristemente nota. Erano sauditi sia Osama bin Laden, defunto leader di Al qaeda, che la maggior parte degli attentatori dell’11 Settembre. E la stessa Arabia sta oggi bombardando lo Yemen, una guerra internazionale lontana dai riflettori e di qui nessuno parla, ma che ugualmente miete vittime da mesi, senza che vi sia la minima iniziativa diplomatica per far cessare le ostilità. Se ciò non bastasse, Trump ha anche rassicurato gli sceicchi di casa Sa’ud che non ha nessuna intenzione di impicciarsi delle loro faccende interne quali, appunto, le violazioni dei diritti umani, la discriminazione delle donne e altre amenità similari, perché quello che conta sono i rapporti commerciali: businness is business, gli affari sono affari. O se preferite la versione dei latini, pecunia non olent, il denaro non puzza, al limite “profuma” di petrolio.
Iran. Nessuna apertura verso Teheran. Nonostante gli iraniani abbiano votato in massa per riconfermare come Presidente il moderato Rouhani, protagonista dell’accordo sul nucleare che ha consentito all’Iran di rientrare a pieno titolo nella comunità internazionale, Trump non ha modificato di una virgola il proprio atteggiamento bellicoso e provocatorio contro questo Paese chiave per gli equilibri regionali. Lo stesso strabismo miope di molti suoi predecessori, elevato all’ennesima potenza. Il “peccato originale” risale alla inaudita presa in ostaggio dell’ambasciata americana di Teheran da parte dei “rivoluzionari” islamisti guidata dall’ayatollah Khomeini all’epoca della cacciata dello scià Reza Pahlevi, uno dei tanti dittatori sostenuti dagli Usa, che ritengono la democrazia un valore fondante, ma solo a casa loro. Da quel momento, tutte le amministrazioni americane hanno portato avanti alleanze con l’islam sunnita, guidato da Arabia e Turchia, combattendo in ogni modo la fazione minoritaria sciita, che ha nell’Iran il Paese-guida.
Israele e Palestina. Visitando Israele e i Territori occupati dove vivono le comunità palestinesi, Trump non ha mai menzionato la soluzione più logica e sensata, “due Stati per due Popoli”, fortemente osteggiata dalle fazioni ortodosse e sioniste israeliane, oggi maggioritarie. Si è limitato ad auspicare che prosegua un processo di pace, dichiarazione di circostanza talmente abusata dalla diplomazia da risultare ipocrita e il cui spessore politico equivale a dire che “bisogna voler bene alla mamma”. Per fortuna, almeno, per il momento l’Amministrazione Usa ha soprasseduto sull’annunciato spostamento della propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, che per i palestinesi sarebbe stato uno schiaffo diplomatico e una ferita insanabili.
G7. Il costosissimo e blindatissimo vertice G7 di Taormina, pur restando un G7 (cioè non un G8, perché prosegue la frattura con la Russia, un’esclusione che andrebbe rivista in tempi brevi) è stato questa volta qualcosa di più della solita passerella di capi di Stato e di Governo. Visto che molti erano gli esordienti (Macron per la Francia, May per l’Inghilterra, Gentiloni per l’Italia, oltre allo stesso Trump) è servito per prendersi reciprocamente le misure, in particolare proprio per quanto riguardava l’imprevedibile presidente Usa. Alla conclusione del vertice, la veterana Merkel, che pure non brilla per simpatia per l’ottusa pervicacia con la quale continua a imporre all’intera UE una dissennata politica di austerità, ha esplicitato con chiarezza quello che ormai pensano a livello politico globale: di Trump non ci si può fidare. L’unità di intenti infatti si è vista –peraltro solo e sempre a parole- sulla necessità di combattere il terrorismo. Stavolta i toni sono stati ancor più decisi, sotto l’onda emozionale dell’attentato di Manchester, ma a livello pratico provvedimenti realmente incisivi non se ne vedono. Per il resto, Trump ha ribadito di voler recedere dagli accordi commerciali internazionali che, a suo dire, danneggerebbero gli Stati Uniti. Ora, che si metta un freno a questa globalizzazione neoliberista cucita su misura per le multinazionali non è certo un male, e ben venga la frenata sull’accordo TTIP, che minacciava di introdurre ulteriori e nefaste liberalizzazioni. Ma Trump non lo fa di certo per difendere le masse oppresse. Semplicemente, è convinto –a ragione- di avere molto più potere contrattuale in fase di accordi bilaterali, dove i singoli Paesi sarebbero molto più succubi alla superpotenza Usa. Ben diverso rapportarsi con un’Europa unita e coesa, che ha ben altro peso di qualsiasi suo membro a sé stante. Paradossalmente, ma neanche troppo, proprio questo atteggiamento aggressivo di Trump ha spinto i membri UE a compattarsi come raramente accaduto prima, persino più che dopo lo schiaffo politico della Brexit.
Clima. Infine, lo strappo decisivo, il passo indietro sull’Accordo di Parigi per la lotta ai cambiamenti climatici. Che tanto, secondo lui, non esistono, come aveva più volte ribadito in campagna elettorale. Con questo atto, Trump fa capire che non vuole dichiarare guerra alla Corea del Nord o all’Iran, ma all’intero pianeta. Gli Usa sono stati per anni i maggiori emettitori mondiali di gas serra, solo di recente superati dalla Cina. Hanno contribuito più di chiunque altro ai cambiamenti climatici in atto, di cui loro stessi patiscono le conseguenze, anche se meno di altri Paesi più sfortunati. E ora decidono di lavarsene le mani, per compiacere gli interessi di ristrette lobby che ormai sono una minoranza reazionaria e obsoleta anche negli Stati Uniti, tanto che la decisioni ha suscitato proteste e malumori anche all’interno del Paese. Per non parlare delle reazioni internazionali, con la replica immediata, congiunta e unitaria di Germania, Francia e Italia, raramente così sollecite a rispondere in maniera risoluta e univoca, che hanno ribadito la validità dell’Accordo, per di più con il sostegno della stessa Cina e, seppure in maniera più defilata, della Russia. E pensare che persino papa Francesco aveva provato a far desistere Trump da questa retromarcia, insistendo sulle emergenze ambientali e regalandogli l’Enciclica ecologista Laudato sì. Niente da fare, Trump tira dritto con la sua idea di “America first”, prima l’America, anche a rischio di diventare “America alone”, da sola. Anzi no, al di fuori dell’Accordo sul Clima c’è anche la Siria del suo arcinemico Assad, bombardato di recente. Sta a vedere che, in fondo, un po’ si somigliano.
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