La rivincita della nostalgia
Omaggio del Teatro alla Scala a Giorgio Strehler con la ripresa di Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) di Mozart.
C’è chi parla di archeologia della memoria, chi di nostalgia di un tempo passato che non c’è più. Ognuno esprima quello che crede, sui giornali o attraverso il fiume di parole riversate sul web, che hanno reso un po’ tutti capaci di sentirsi critici e portatori di verità (null’altro che le proprie, ovviamente). Ci si chiede a quali conclusioni addivenire dopo che su alcune testate si leggono lodi a spettacoli poi ferocemente stroncati da altre. Chi si avvicinerà alla verità che tutti vogliono imporre come giusta, spesso con altezzosa tenacia? Forse nessun la sa! Così è successo, ancora un volta, dopo aver assistito all’allestimento di Die Entführung aus dem serail (Il ratto dal serraglio) di Mozart che la Scala ha rimontato non a caso, visto che l’occasione era quella di rendere omaggio ai vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Strehler. Questo spettacolo, nato a Salisburgo nel 1965, fu ripreso alla Scala nel 1972 e poi ancora nel 1978 e 1994.
Cosa si deve dire? Forse che è superato? Non lo è affatto, è solo figlio di un tempo in cui Mozart non veniva concepito come è in uso fare oggi. Fondali illuminati, agili quinte scorrevoli con temi turcheschi, un veliero e una portantina piumata sono i pochi elementi scenici (scene e costumi sono di Luciano Damiani) tramite i quali la regia di Strehler costruisce un mondo mozartiano di silhouette settecentesche creato con luci morbide o abbaglianti, all’interno delle quali i personaggi si muovono avanzando al proscenio avvolti in un cono d’ombra controluce (per intonare le arie) e recitano illuminati quando pronunciano i dialoghi parlati, così da rendere chiara la struttura del singspiel nella sua alternanza fra canto e recitazione.
Tutto appare lieve, avvolto in una tenue cornice figurativa stilizzata che punta all’eleganza, con quella ricerca di un supremo ordine illuministico che rende questo Mozart venato di pieghe malinconiche ben lontane da quei sottintesi psicologici che il tempo ci ha aiutato a scoprire, arrivando a far comprendere che Mozart è vita e pertanto andrebbe presentato con tali intenti, non come teatro di tipologie caratteriali fisse, ma in divenire, come lo è il vivere stesso in tutti i suoi aspetti. Questo però non significa che malinconia e nostalgia non entrino far parte della componente mozartiana e che la suprema celebrazione della bontà del monarca turco, capace di essere “tiranno buono” pronto rinunciare a tener segregata a sé la bella Konstanze anche quando capisce che lei non proverà mai amore per lui, non debba essere celebrata quale sinonimo di illuminato ravvedimento della ragione.
Qui lo si fa in una maniera schematica e forse ingenua, consapevoli di come la ragione vinca sulle bassezze dell’agire umano. Eppure questo Mozart così pieno di tenerezza da apparire ingessato, risulta fastidioso a chi crede in un teatro che deve metter per forza di cose in atto l’agire talvolta subdolo e ambiguo dell’uomo, come è la vita stessa a dimostrare. Lo spettacolo è dunque figlio del suo tempo, un tempo della memoria teatrale che non va “rottamato”, ma talvolta ristudiato (l’importante, impresa assai ardua, è che lo si ristudi bene, ossia che si rimonti a dovere lo spettacolo) per meglio capire l’evolversi di quello presente.
La direzione di Zubin Mehta sembra plasmata a meraviglia sul figurativismo tenue, pulito e lindo di questo spettacolo, così che i suoni che si sentono uscire dalla buca dell’orchestra scaligera sono quelli della vecchia Vienna, con tutte le sue nostalgie, i suoi richiami raffinati; mai un eccesso, anche nelle turcherie strumentali dell’Ouverture, ma tempi dilatati, venati di malinconia. Cosa proprio non ha funzionato nella ripresa di questo Ratto dal serraglio scaligero è stato il cast vocale. La Konstanze di Lenneke Ruiten, oltre alla voce secca e qua e là fissa, non ha certo il bagaglio virtuosistico richiesto; appare scolastica e prudente, poco contrita nei commossi abbandoni patetici che esprimono il dolore per la perdita dell’amato Belmonte, o non adeguatamente ardita nei fuochi d’artificio belcantistici della celebre aria “Martern aller Arten”, quando disdegna con eroica determinazione le profferte amorose del Pascià utilizzando come arma di rifiuto l’acrobatismo vocale. Anche il Belmonte di Mauro Peter ha voce legnosa, che per di più naufraga nelle agilità dell’aria “Ich baue ganz”. L’Osmin di Tobias Kehrer non forza la natura comica del personaggio e la tratteggia con leggera ironia, ma il registro grave richiesto dalla parte non c’è. Garbato è il Pedrillo di Maximilian Schmitt.
Su tutti svetta la Blonde di Sabine Devieilhe, al suo debutto scaligero dopo i trascorsi successi parigini che la stanno imponendo fra i soprani di coloratura, di scuola e stile francesi, più in vista del momento. Volteggia sulla scena come una libellula e così fa anche con la voce, piccina ma delicatamente sfumata e limpida, capace di toccare le vette estreme del pentagramma smorzando i suoni ad alta quota con la classe di una grande. La sua aria d’apertura del secondo atto è il vertice vocale esecutivo di una serata nell’insieme non memorabile ma piacevole.
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