La povertà continua ad aumentare, nessuna sorpresa

I dati dell’Istat relativi al 2016 sulla povertà in Italia non possono suscitare più alcuna sorpresa. Quasi cinque milioni di persone in povertà assoluta, con i giovani che stanno peggio degli anziani, con squilibri territoriali persistenti fra nord e sud, con salari ormai largamente insufficienti a coprire le necessità familiari. Un trend di impoverimento che continua dall’inizio della crisi e dall’adozione delle politiche di austerità, le quali hanno dimostrato di funzionare come la benzina usata per spegnere gli incendi, generando aumento della disoccupazione, perdita ulteriore di posti di lavoro nel nostro Paese, deflazione salariale, precarietà e fragilità sociale.

Dall’ultimo Report Istat, La povertà in Italia, relativo al 2016.

Di fronte al dilagare della povertà negli ultimi anni la società civile non è stata a guardare ed ha fatto la propria parte, coalizzandosi, in una misura significativa nell’Alleanza contro la povertà in Italia, da cui è sorto il progetto di un piano specifico e sistematico per la lotta alla povertà. Un progetto, quello del reddito di inclusione sociale, fatto proprio, almeno in linea di principio, dal governo e che necessità di essere attuato e di trovare maggiori risorse di quelle fin qui stanziate per poter essere efficace. Nel contempo, però, va ricordato che gli interventi specifici contro la povertà potranno sortire gli effetti auspicati solo a condizione che l’orientamento generale delle politiche vada nella direzione della riduzione delle disuguaglianze, della creazione di nuovo lavoro e del potenziamento dello stato sociale.

Purtroppo, non paiono queste, se non a parole (e di questi tempi di parole giuste ma buttate al vento se ne sentono non poche), le linee guida delle politiche nazionali e comunitarie. Il monetarismo che governa l’Europa attuale, impone agli Stati scelte deflattive (meno investimenti per lavoro e sviluppo, meno spesa sociale, elevatissima pressione fiscale, regolamentazione burocratica di livello sovietico) che, scientemente, distruggono il nostro tessuto produttivo generando disoccupazione, svalutazione dei salari e povertà. Un’austerità ferrea che conosce solo due grandi eccezioni: i soldi, pubblici, per le guerre della Nato e per ripianare i disastri delle più azzardate operazioni finanziarie ci sono sempre. Vige una ricerca spasmodica della competitività in uno schema che mira a mettere in concorrenza diretta i lavoratori del mondo sviluppato con quelli delle economie emergenti, provocando, senza le dovute regole (dazi a tutela di diritti, salute, ambiente, accordi bilaterali nella logica del vantaggio reciproco dei popoli anziché del lucro smisurato per pochissimi garantito da trattati come i famigerati Ceta e Ttip) un livellamento verso il basso della condizione dei lavoratori e della classe media. Ciò genera stagnazione infinita in un mercato mondiale dove tutti ambiscono a produrre al ribasso, riducendo salari e diritti, soffocando la domanda interna, e nessuno, tranne poche élites che si appropriano indebitamente della gran parte della ricchezza, dispone più di risorse adeguate per comprare e per mantenere un livello dignitoso di vita, soprattutto per i figli e le nuove generazioni.

La lotta alla povertà, dunque, per essere concreta deve essere a trecentosessanta gradi, deve comprendere tutto, le misure specifiche e le politiche generali. E si deve avere consapevolezza che investire contro la povertà e le disuguaglianze significa investire nella democrazia. Perché con l’andamento attuale in tema di salari, pensioni, fisco si stanno minando le basi della coesione sociale. Quello che non si può più fare è gridare allo scandalo della povertà crescente, fingere sorpresa di fronte a dati allarmanti che ogni anno si ripropongono peggiori e continuare imperterriti con politiche generatrici di disuguaglianza. Le alternative ci sono. La politica, se vuole, può in ogni momento riprendersi lo scettro che sembra aver ceduto ai potentati finanziari. Di qui passa la via di una efficace lotta alla povertà, che senta il fiato sul collo di una classe media che non ce la fa più, e che sappia incanalare queste legittime istanze in un percorso democratico.

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