Lombardia e Veneto, ora basta guardarsi l’ombelico

Gli esiti scontati, nel risultato e nell’affluenza al voto, dei due referendum sull’autonomia regionale di Lombardia e Veneto lasceranno presto il posto al confronto istituzionale che non potrà che proseguire nella direzione sancita dal Titolo V della Costituzione. A urne chiuse – e a tablet spenti per la Lombardia, con una modalità di voto che non pare ancora in grado di coniugare in maniera accettabile l’innovazione con l’assoluta verificabilità del rispetto delle scelte espresse agli elettori – sembra così confermata l’inutilità di questa consultazione referendaria, di fronte alla quale si sono visti tentennamenti ed indecisioni difficili da comprendere da parte di quelle forze e di quelle culture politiche (come quella cattolico-democratica che ha nel proprio dna una cultura della sussidiarietà che esalta il ruolo dei livelli di governo più prossimi al cittadino) che hanno perso un’occasione per indicare una diversa concezione dell’autonomia e dei rapporti fra le varie articolazioni dello stato.

Eppure, ciò costituisce una priorità imposta sia dagli avvenimenti che hanno coinvolto l’Italia e l’Europa a partire dalla fine del secolo scorso, sia dalle dinamiche in atto nel presente.

In mancanza di un serio e stringente dibattito sui temi del rapporto fra i vari livelli di governo, si assiste al trionfo di una propaganda sganciata da ogni logica. Non solo da parte di Maroni e Zaia, con l’uso di questi referendum piegato a logiche dettate dalle loro rispettive prossime campagne elettorali, ma anche di un Berlusconi che converte la trovata nello slogan “più autonomia per tutte le regioni” o di un Renzi che dopo aver enfatizzato l’abolizione delle province si accorge con il suo tour elettorale in treno che non è possibile incontrare, e governare, l’Italia reale, prescindendo dal livello provinciale o di area vasta.

Si sono passati più di vent’anni a disquisire di autonomie senza esser riusciti a far emergere un diverso modello di rapporto fra centro e periferie. L’idea di “capitale reticolare”, che non coinvolge solo il livello nazionale, ma sporge nella direzione di una intelligente dislocazione dei nodi decisionali, resa possibile anche attraverso le nuove tecnologie, pare essersi persa nei meandri della burocrazia.

E soprattutto alcune forze politiche hanno agitato la questione dell’autonomia negli anni in cui il capitale riprendeva con forza la sua supremazia sul lavoro e la finanza privata scippava alle istituzioni democratiche la residua potestà sulle politiche economiche e monetarie, creando così le condizioni ovunque per una generalizzata svalutazione del lavoro e per un aumento delle disuguaglianze a livelli inimmaginabili. Costoro anziché misurarsi con i nuovi equilibri del XXI secolo hanno indicato nella costruzione di nuove piccole patrie la soluzione a problemi epocali.

E questo ci catapulta nell’attualità. Alla Lombardia e al Veneto non basterà gestire in loco una maggior quota di gettito, se si elude la questione centrale di conoscere quanto delle tasse che si pagano, vada a finanziare i servizi al cittadino, piuttosto che a tappare i buchi dei derivati nella Pubblica Amministrazione, che garantiscono lauti ed ingiustificabili guadagli alle banche d’affari, o a pagare gli interessi di un debito pubblico non più gestito nell’interesse della collettività (anche se sarebbe possibile tornare a farlo, essendo solo questione di volontà politica) ma in quello delle centrali speculative globali, o ancora piuttosto alla spesa militare e per armamenti, in crescita continua a fronte di dolorosi tagli per lo sviluppo e per il welfare.

Questi mi paiono fondati motivi per proporre nella ormai imminente prossima legislatura un accordo aperto a tutte le forze politiche per l’istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sulla reale destinazione del gettito, per far luce su quanta parte dei soldi dei contribuenti venga distolta dal bene comune andando invece ad alimentare quelle sofisticate, ed ingenti in termini di cifre, forme di sfruttamento, e di furto, escogitate dalla colpevole privatizzazione delle politiche economiche e monetarie, cui si è assistito in questi anni in modo troppo arrendevole da parte della politica e delle istituzioni.

Infine, è appena il caso di rilevare che quando la visione delle cose non va al di là del proprio naso, si diventa materia utile ai disegni di coloro che, nel bene o nel male, li sanno fare. Con il clima che si è creato in Europa, con le spinte secessioniste rinvigorite nel Regno Unito dopo la Brexit, con il Belgio in cui Fiamminghi e Valloni vivono ormai da separati in casa, con la delicata vicenda della Catalogna, di tutto si avvertiva il bisogno fuorché di un protagonismo di due presidenti di regione italiani che pure hanno preso nettamente le distanze da ogni velleità secessionista. Se si apre la via della frammentazione in Europa anche la pace in Medio Oriente si allontana. Sullo scacchiere internazionale infatti la spinta secessionista della piccola Catalogna – e delle regioni che dovessero scimmiottarla – vale più attualmente come un precedente per le prospettive che può dischiudere in funzione della costituzione di uno stato Curdo, che per se stessa. Con tutto ciò che una tale eventualità comporterebbe sul piano della tenuta dei fragilissimi equilibri raggiunti in quell’area dai principali protagonisti della politica mondiale dopo anni di guerre ininterrotte. Ecco magari un’idea di autonomia da rilanciare nel mondo globalizzato: ciò che si fa “a casa propria” può avere conseguenze indesiderate anche su vasta scala.

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