Embraco, quando manca una politica industriale e latita l’Europa

Quello dell’Embraco, multinazionale del gruppo Whirlpool, che vuol chiudere il suo stabilimento italiano, a Riva di Chieri vicino a Torino, è il più recente caso di un capitalismo globalizzato, privo di qualsiasi legame col territorio. L’azienda brasiliana ha deciso di trasferire le sue produzioni in Slovacchia, dove sono più bassi i salari e i carichi contributivi ed ancor più ridotta è la tassazione. Circa 500 lavoratori perdono il posto e cessa di esistere un sito, non certo in crisi, poiché il suo prodotto (compressori frigoriferi) viene usato negli elettrodomestici e nell’impiantistica del freddo. Quest’ultimo, un settore in continua espansione.

Molte riflessioni si impongono. Intanto si assiste alla debolezza dello Stato e delle collettività territoriali. Da troppo tempo manca una vera politica industriale, in cui la parte pubblica promuove il contesto produttivo: dalla logistica alle infrastrutture, a minori incombenze burocratiche per offrire alle imprese un ambiente loro favorevole, compensando un costo del lavoro che, ovviamente, non potrà mai inseguire quello di Paesi più arretrati del nostro.

Emerge in pieno la latitanza dell’Europa come entità sovranazionale. Che tra i membri dell’Unione si faccia una così sregolata concorrenza al ribasso tra livelli salariali ed aliquote fiscali è assurdo. Così si sancisce, al di là di tante inutili parole, il fallimento, nella sua concreta quotidianità, del grande progetto di integrazione europea. Davvero enorme risulta la sfacciataggine di questi Paesi dell’est che ricevono caterve di fondi strutturali per poi impiegarli anche in operazioni di dumping.

Ineccepibile, dunque, l’azione del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, uno dei migliori esponenti dell’attuale governo (come si è visto anche con l’Ilva di Taranto), per verificare, tramite la Commissione europea, nella persona del commissario alla Concorrenza, Margrethe Vestagen, se nella delocalizzazione in Slovacchia non vi sia l’apporto, magari surrettizio, di aiuti di Stato, vietati dai regolamenti comunitari. Certo l’assenza dell’Europa pesa. Serve una vera integrazione con le stesse regole fiscali e un percorso di convergenza salariale e contributivo, per a proteggere, nel suo complesso, il nostro modello economico e sociale, unica diga contro un capitalismo straripante, fonte di precarietà per larghissima parte della popolazione.

I Paesi che credono in questa maggior integrazione devono fare un passo in avanti. Se i quattro grandi: Italia, Francia, Germania e Spagna, trovano un’intesa si può partire subito e chi vuol frenare questo processo deve essere messo fuori. Divenendo, da quel momento, un esplicito concorrente a tutti gli effetti.

Rimane un ultimo aspetto, per lo più trascurato. C’è da chiedersi se questo mercato onnipotente non sia anche alimentato dalla gente comune, con l’ansia di elevati rendimenti a breve sui titoli e i fondi nei quali investe. Rendimenti che non nascono su Marte ma che derivano magari da ristrutturazioni aziendali che vanno poi a scapito dei posti di lavoro. Uscire da questo circolo vizioso della speculazione, di cui un po’ tutti siamo parte, è decisivo per ripensare le basi di un’economia sana e al servizio dell’uomo.

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