A quarant’anni dalla strage di via Fani

In uno scorso articolo di questo giornale, si era presa in considerazione la suggestione di Mattarella, nel suo discorso di fine 2017, relativa alle differenze tra i ragazzi del 1899 e quelli del 1999: questi ultimi avrebbero potuto andare alle urne per la loro prima volta (sarebbe opportuno capire se e come hanno votato), mentre quelli del 1899 “dovettero” andare al fronte, per loro prima volta (e per molti fu l’unica, perché là trovarono la morte).

A quarant’anni dalla strage di via Fani, forse è opportuno vedere anche la diversità che potrebbero esserci coi ragazzi che allora (nel 1978) avevano diciannove anni, quelli nati nel 1959. Ricostruiamo quel tragico episodio con i ricordi di uno di loro, persona che non vuole essere rappresentativa della sua generazione, ma che ne esprime, comunque, un punto di vista. Riportiamo la sua testimonianza così come l’abbiamo raccolta, senza correggere alcune imperfezioni, non mitigandone un certo cinismo che, d’altronde, non ci sentiamo di condannare e ricordando che gli abbiamo chiesto di ricostruire gli aventi di allora, senza (possibilmente) filtrarli col senno di poi e con le categorie che ora sono quelle di un uomo forse maturo. Ci ha detto:

Mi ricordo esattamente quando ho saputo della strage: ero a scuola nell’intervallo mattutino. Una grande agitazione percorse l’istituto: quasi non fossimo abituati a notizie del genere. Avevano rapito Moro, ma passava inosservata l’uccisione della sua scorta. Avevo iniziato il liceo nell’anno in cui avevamo rapito Montelera (per soldi, mi pare) ed era abituale che ci fossero dei rapimenti per estorsione. Poi iniziarono i brigatisti, mi pare con un dirigente Fiat che tennero prigioniero in un garage del condominio di fronte al mio. Poi il giudice Sossi,… cosa si stupivano: a Roma pensavano forse che i rapimenti fossero una malattia del Nord o della Sardegna? Per quanto riguarda l’uccisione della scorta, quella era un’altra cosa: non ci si abituava alla morte violenta e vigliacca, anche se era un fatto disgraziatamente quasi ineludibile di quella società. Ricordo i due poliziotti carcerari uccisi una notte, mentre inermi vegliavano un angolo del carcere in una semplice auto; il giudice Coco a Genova, che aveva rifiutato di trattare con i rapitori di Sossi;…. nel 1977 rammento di essere sceso da un treno e di aver letto Stampa Sera, che riportava la grave ferita al giornalista Carlo Casalegno della Stampa, che poi fu mortale. Sempre quell’anno, a un paio di isolati dalla mia scuola, avevano bruciato un bar (ritenendolo covo di fascisti) e vi trovo la morte un giovane uomo, lì per caso (tra l’altro furono incolpati degli studenti a me conosciuti – alcuni ora personaggi famosi- che poi forse vennero scagionati). Qualche giorno prima del 16 marzo, mi pare che a Milano fossero stati ammazzati due ragazzi dei centri sociali,… e così via,… purtroppo potrei fare tantissimi altri esempi, anche di amici. Quindi, questi che si agitavano tanto, dove pensavano di abitare, in un mondo perfetto? Sulla Luna? Sempre in quel periodo, a Torino era iniziato il primo processo alle BR, perché finalmente avevano trovato persone disposte a rischiare la vita per fare il giudice popolare (e gli avvocati d’ufficio: anche gli avvocati pagarono poi un tributo di sangue). C’era una vicina di casa, persona fragile e minuta, che accompagnava la figlia a prendere il mio stesso pullman, pensando ingenuamente di poterla così proteggere, in quanto il marito aveva scelto di far parte di quella giuria. Quelli erano gli anni della mia adolescenza. Dicono che i bambini nati in luoghi di guerra, che hanno sempre subito la guerra, pensano che la guerra sia la normalità. Per me non era così, i terroristi non c’erano quando io ero bambino, sono arrivati dopo ed ero convinto che sarebbero passati e sarebbero stati sconfitti, anche se a duro prezzo. Ma esistevano, delinquevano, ammazzavano, qualcuno non li condannava (ahimè!). Ma mi stupivano quelli che si stupivano. C’era una grande distanza tra Roma e Torino, tra i giovani e la politica. Ma chi di noi faceva politica? Ma questo sarebbe un altro discorso”.

Il racconto è continuato con altri tragici fatti minuti, che si incastrarono tra quelli più noti e sarebbe troppo lungo riportarlo integralmente, ma se fin ora c’è stato almeno un lettore che ci ha seguito, lasciamogli commento. Tornando al paragone iniziale, che differenza può esserci tra quei ragazzi di allora e quelli di oggi? La gran parte di loro, appunto, non si abituò a quella società, che fu poi faticosamente sanata (anche col loro contributo); oggi la società non è più così violenta (e questa è una diversità fondamentale), ma la distanza tra i giovani e la politica permane, oggi come allora, e questa non è colpa dei giovani d’oggi, ma forse lo è “anche” di quelli che “allora” erano giovani (anche se stavano dalla parte giusta).

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