Il centro, i cattolici e i centristi
Ilvo Diamanti, con l’ormai consueta lucidità e chiarezza, ci dice su Repubblica che il “centro, oggi, non esiste più”. Ovvero, che il paese ha “perso il centro”. Ora, tutti sappiamo che attorno a questo tema si sono scritti negli anni scorsi fiumi di inchiostro. Dopo la fine della Democrazia Cristiana e il tramonto di quel partito che per quasi 50 anni ha rappresentato il perno del sistema politico – anche se era un “partito di centro che guardava a sinistra” – la politica italiana ha intrapreso la strada dellademocrazia dell’alternanza e del bipolarismo spinto. Anche qui, e’ inutile ricordarlo, individuando proprio nel bipolarismo la panacea di tutti i mali che avrebbe rimosso, quasi d’incanto, le degenerazioni legate al consociativismo, alla eccessiva mediazione e alla tendenza al compromesso. Ingredienti ritenuti decisivi della caduta della prima repubblica e, soprattutto, della decadenza morale della politica italiana. Con l’impegno, a livello pubblico come a livello privato, di demolire tutto ciò che era anche solo lontanamente riconducibile ad una “politica di centro”. E, nello specifico, alla vicenda politica concreta della lunga stagione della Democrazia Cristiana e anche della breve esperienza del Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli e di Franco Marini. Dopo circa 25 anni, e di fronte ad uno scenario pubblico del tutto nuovo ed inedito, da tempo e’ partita la campagna sui grandi organi di informazione di rilegittimazione politica, culturale e sociale del “centro” e delle sue presunte virtù politiche nel nostro paese. E il recente articolo di Ilvo Diamanti non fa che confermarlo. Di norma, lo possiamo pure ricordare, un’opera di rilegittimazione politica che avviene da parte di coloro che l’avevano consapevolmente affossata e liquidata come una stagione definitivamente archiviata e da storicizzare. Oggi, almeno così pare, tutto cambia.
Ora, per evitare di fare di tutta l’erba un fascio e tenendo conto della inevitabile evoluzione della politica italiana – o involuzione, a secondo del giudizio che ognuno di noi può dare – e’ indubbio che, come evidenziano non solo Diamanti ma molti altri commentatori come Galli Della Loggia, Panebianco e lo stesso Cacciari, la necessità di riscoprire ciò che ha rappresentato nel nostro paese la “cultura di centro” e’ strettamente intrecciata a quella cultura che va sotto il nome di “cattolicesimo politico”. Perché qui non si tratta di ricostruire grottescamente “il centro” e, men che meno, dar vita ad un “partito di centro”. Semmai, va riattualizzata una cultura politica che, piaccia o non piaccia, non può essere archiviata se si crede in una democrazia parlamentare, in una democrazia rappresentativa e nel pluralismo sociale e culturale. La “cultura della mediazione”, la “cultura del compromesso”, l’arte della “composizione degli interessi”, il riconoscimento del “pluralismo” che caratterizza una società evoluta e composita, la “cultura del buon governo” e la volontà di non “radicalizzare lo scontro politico e sociale” fanno parte di un bagaglio politico, culturale, ideale e programmatico che non rientra nel profilo dei partiti populisti. Di qualsiasi colore siano e a qualunque appartenenza rispondano.
Ecco perché dopo il voto del 4 marzo si deve voltare pagina. Non lo dicono solo gli storici detrattori della Dc, del centro, del cattolicesimo politico e dei centristi. Qui nessuno pensa di ricostruire, lo ripeto, una Dc bonsai e nessuno, ancor di più, pensa di di dare vita ad un partito di centro fatto di centristi che assomigliano sempre più ai trasformisti e ai voltagabbana, come l’ultima tornata elettorale ha confermato platealmente per questo scampolo di ceto politico. Al contrario, si tratta di rimettere in gioco un patrimonio culturale e politico che oggi è sempre più richiesto e gettonato. Non per nostalgia o per pura memoria storica ma perché lo richiede la credibilità della nostra democrazia, delle nostre istituzioni e dello stesso sistema politico. Se si abdica a questo compito, il futuro della politica italiana non potrà che essere vittima di una profonda radicalizzazione politica e sociale con ricadute ad oggi inesplorate ed inesplorabili per la tenuta stessa della nostra democrazia.
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