Quale classe dirigente?

Il veto della Lega ha sbarrato la strada per palazzo Chigi a Luigi Di Maio e il M5S ha dovuto rinunciare alla presidenza del Consiglio. Aspetto decisivo della faccenda il fatto, passato un po’ in secondo piano, che i pentastellati non avevano candidati alternativi a Di Maio, che potessero magari essere più “digeribili” per i leghisti. A quel punto è emersa, gioco forza, l’ipotesi di una candidatura tecnica come quella del professor Conte. In buona sostanza, per la carica di presidente del Consiglio, il M5S è parso non avere alternative spendibili al suo giovane leader. Quasi che il ceto dirigente pentastellato si esaurisca con lui.

E questo ci fornisce la misura di quale abisso separi il M5S da uno qualsiasi dei partiti della Prima repubblica che, grandi o piccoli che fossero, avevano tutti quanti, diversi potenziali candidati premier, qualora si fossero trovati nella necessità di dover proporsi per la guida del governo. Da cosa deriva questa carenza odierna, a fronte dell’indubbia abbondanza del passato?

Forse basterebbe ricordare che Dc, Pci, Psi o Msi erano dei partiti veri, con le loro correnti, con le loro diverse sensibilità culturali. Formazioni popolari, ben inserite nel tessuto sociale, che facevano regolari congressi per decidere la linea politica e dai quali emergeva una classe dirigente articolata e plurale, in cui il segretario era un primus inter pares e non il padrone del partito. Oggi tutto si concentra invece nel leader di turno. E se i pentastellati portano all’estremo questa tendenza, le cose non sono tanto diverse nella Lega, in Forza Italia o nel Pd.

Dappertutto vediamo un uomo solo al comando, scelto non in una sede congressuale, frutto dell’attività di centinaia di sezioni sul territorio e della discussione di migliaia di militanti ad ogni livello. Vanno invece per la maggiore le consultazioni on line, quasi che la politica potesse risolversi con un banale click su una tastiera del computer oppure le primarie, in apparenza ottima forma di democrazia diretta ma in realtà una sorta di plebiscito, senza alcun effettivo confronto sul programma del partito.

E in fondo proprio in questo sta la differenza tra la politica di ieri e quella di oggi. Una politica, quella odierna, segnata da un’estrema personalizzazione con cui si immagina di fare a meno di qualsiasi mediazione tra il leader e i militanti o gli elettori. Il partito o il movimento cessa di essere un luogo collettivo ove si elabora un progetto condiviso ma diviene il regno incontrastato di un  capo,  circondato da una corte di fedeli, priva di qualità politiche e progettuali. Le liste bloccate, il collegio sicuro per i seguaci del capo, le candidature multiple sono il frutto di questa logica scellerata. Un fenomeno su cui occorre riflettere, tentando di porvi rimedio. In caso contrario non avremo più una classe politica degna di questo nome, ma il susseguirsi dell’avventuriero di turno, unico detentore del potere, servito da un codazzo di mediocri accoliti.

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