La tv che non c’è: come e perché riformare la Rai
Il pubblico televisivo ha avuto modo, qualche anno fa, di apprezzare in seconda serata su Rai Tre, alcuni film dal vero di una serie “La città infinita”, realizzata da Gilberto Squizzato, che ha girato per la Rai diversi docu-film che hanno ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo. Le storie narrate in tale serie apparivano legate da un medesimo filo che era quello dell’esplorazione dell’impatto nelle grandi città della “realtà globale” che stiamo vivendo in questi anni e delle disuguaglianze che ha prodotto.
Pertanto, non stupisce affatto che Squizzato, in un volume molto denso di spunti di dibattito, affronti ora un tema altrettanto complesso come quello della riforma della Rai.
Nel suo nuovo saggio “La tv che non c’è” ( Ed. Minimum fax) il regista bustese pone molte domande cruciali attraverso cui passa oggi la funzione della tv pubblica. Una tv che egli vorrebbe meno “di stato” e più aperta alla società, ai territori, ai talenti nazionali, a fronte di una realtà che offre segnali contraddittori, alcuni dei quali nella direzione contraria da quella auspicata da Squizzato.
Come ad esempio la questione centrale della produzione dei palinsesti. «Per quale via – si chiede l’Autore – riportare all’interno dell’azienda l’ideazione dei palinsesti, oggi largamente delegata alle società esterne che adattano format di importazione?». Si tratta di un aspetto poco indagato ma che molto ha contribuito alla generale omologazione dell’offerta televisiva, ormai in balia dei venditori di format, che determinano il palinsesto. Addirittura, una fra le maggiori società di produzioni di format televisivi, la Endemol, fino a qualche anno fa, prima dello scoppio della crisi, era posseduta per circa un terzo nientemeno che da Goldman Sachs, la regina delle banche d’affari internazionali. Questo rivela importanza strategica che riveste l’ideazione dei format non solo per il mondo della televisione ma ancor di più per il controllo sociale rispetto al quale centri di potere che stanno al di sopra degli stati e che non sono sempre visibili, dispongono di efficacissime possibilità di manovra.
Questo libro di Squizzato pone l’urgenza per il servizio pubblico di valorizzare le proprie risorse interne in qualche modo espressione di un patrimonio di valori legato alla società ed alla storia del Paese, oggi minacciato anche dall’avanzare di imperi editoriali multimediali come quello dell’australiano Murdoch, il cui gruppo in molti Paesi dei cinque continenti non incontra pressoché rivali sulla tv satellitare e che oggi, utilizzando le frequenze del gruppo editoriale controllato dall’ing. De Benedetti, si appresta a lanciare la propria sfida al sistema televisivo anche sul digitale terrestre in chiaro, dove peraltro la Rai, pur con tutti i suoi limiti, ha saputo ritagliarsi una posizione di rilievo con una dozzina di canali, la maggior parte dei quali con contenuti di ottima qualità ed oggi accessibili a tutti, dopo la coraggiosa e lungimirante decisione dell’estate scorsa di uscire dalla piattaforma satellitare del tycoon australiano.
Per queste ed altre ragioni non si può che concordare con Squizzato quando sostiene che vanno guariti i mali che ancora impediscono alla Rai di espletare pienamente il suo compito, come «la sua progressiva omologazione alle emittenti commerciali, il mancato rinnovamento dei quadri editoriali, l’impoverimento del suo know per una politica di incentivazioni all’esodo dei dipendenti, la rinuncia ad avere un pool di formidabili autori interni, l’ipertrofia della burocrazia amministrativa a discapito dei quadri editoriali e creativi, il ricorso sistematico all’esternalizzazione di molti dei programmi più costosi», e tanti altri problemi ancora.
“La tv che non c’è” risulta sicuramente interessante ed utile anche per il dibattito politico locale, e in particolare per quanti si trovano a delineare le nuove forme del servizio pubblico televisivo a livello regionale. La sua lettura, infatti, fornisce copiosi argomenti per non ricreare e moltiplicare in ogni regione quei limiti che impediscono alla Rai di espletare con completezza la propria funzione di servizio pubblico radiotelevisivo.
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