Dopo trentasei anni torna “Ernani” di Verdi al Teatro alla Scala

Una compagnia di canto di prestigio, ma lo spettacolo delude.

ERNANI

Quando non dissacrano, o manipolano a proprio uso e consumo la drammaturgia di un’opera – senza escludere a priori, come talvolta capita al “teatro di regia” più estremizzato, approdi artistici significativi e illuminanti – taluni registi arrivano al punto di sposare la tradizione per poi irriderla. Così sembra esser capitato alla Scala, per il ritorno di Ernani di Verdi a trentasei anni dalla messa in scena di Luca Ronconi, che vide sul podio uno straordinario Riccardo Muti e un cast di interpreti stellare (Placido Domingo, Mirella Freni, Renato Bruson e Nicolai Ghiaurov). Il tedesco Sven-Eric Bechtolf pensa dunque, con le scene di Julian Crouch e i costumi di Kevin Pollard, ad un allestimento che immagina la romanticissima vicenda del bandito Ernani animarsi dal backstage di un vecchio teatro ottocentesco, ove si mette in scena, come si faceva un tempo, con sipari dipinti e quinte in cartapesta, un allestimento dell’opera verdiana.

Ciò che ad un primo impatto appare e si sviluppa sembra a tutti gli effetti uno spettacolo nel segno del rispetto storico. Ma il regista ci mette del suo, ossia l’ironia, come se volesse farsi gioco della musica accompagnando il ritmo danzato inconfondibilmente padano di alcuni cori impiegandolo come sottofondo musicale di svago per comparse e macchinisti che seguono il corso della messa in scena dell’opera; ci sono addirittura delle cancaneuses, o si vede Giovanna, la nutrice di Elvira, che zoppica in scena (sembra un personaggio grottesco uscito da un’opera barocca di stile veneziano), mentre alla sua padrona la regia impone una recitazione fumettistica, da diva del muto. La festa nuziale che apre l’ultimo atto si trasforma in una improbabile mascherata. Insomma tutto fa pensare che il regista non creda nell’identica romantica corrusca di quest’opera a tinte melodrammatiche forti, tipica del Verdi giovanile, che però scopre, come scrisse Gioacchino Lanza Tomasi, “il tratto più genuino dell’epica verdiana: il dramma del singolo come dramma di tutti”, non certo l’ironia.

Così la realtà del retropalco si confonde e intreccia con la finzione della narrazione teatrale e i “siparietti” ironici finiscono per guastare la sostanza di una messa in scena tradizionale sì, eppure ingenuamente demistificata. Per fortuna, sul palcoscenico ed in buca, tutto funziona assai bene. Se si aspettava che Ádám Fischer non fosse così attento al dettato verdiano, ci si è dovuti in parte ricredere. Certo qualche lieve scollamento fra orchestra e palcoscenico si avverte, ma la sua direzione, per quanto accesa e vibrante, sa anche essere attenta alle esigenze delle voci, accompagnandole a regola d’arte negli involi più lirici. E poi Orchestra e Coro (istruito da Bruno Casoni) della Scala sono, come sempre, meravigliosi. Il cast risponde al meglio delle sue possibilità. Non siamo qui a negare che ad Ailyn Perez manchino qualità, ma con la vocalità di Elvira il soprano statunitense ha poco a che spartire. La voce è bella e ben proiettata, ma la drammaticità della scrittura e la coloratura sono al di sopra delle sue possibilità e la costringono a non pochi compromessi, con un registro grave pressoché inesistente e acuti che diventano affaticati quando nella cabaletta dell’aria di sortita le disomogeneità di emissione sono evidenti.

La restante compagnia è di livello superiore, a partire da Francesco Meli, che si conferma interprete di riferimento per la parte di Ernani, col suo cantar all’”italiana” piegato alle ragioni di un sentire romantico che conosce le regole del canto ottocentesco tornandone alle origini, in termini d’eleganza di linea e volontà di sfumare l’emissione, coniugando con equilibrio l’irruenza impetuosa del bandito con il ripiegamento del canto amoroso (magnifico è nel duetto con Elvira, quando intona “Solo affanni il nostro affetto sulla terra a noi darà”, nel quale si coglie veramente il palpito dell’agognata ma irrealizzabile elegia amorosa romantica); ambiti dove ovviamente la bellezza del timbro di Meli fa la sua parte. Certo gli manca quella incisività d’accento, infuocata e martellante (vedasi “Oro, quant’oro ogn’avido”), che avevano gli Ernani che sono nelle orecchie di tutti. Ma qui sta la differenza, che depone a favore di Meli quando sfronda la linea vocale da ogni concessione verista, a favore di una visione stilistica più pertinente alle esigenze della parte. Anche Luca Salsi si conferma fra i pochi baritoni in circolazione capace di rendere giustizia ad una parte impervia, che richiede accenti imperiosi e regali come pure quel canto a fior di labbro e quel legato che, retaggio della vocalità belcantistica, vuole Don Carlo come classico esempio di parte da baritono “grand-seigneur”. Salsi ha l’accento verdiano giusto (lo dimostra nella slancio donato a “Lo vedremo, o veglio audace”), la capacità di tinteggiare la parola di sfumature adeguate e si impegna anche per piegare il canto alle sfumature dei momenti amorosi (“Da quel dì che t’ho veduta”) o alla superiore caratura delle pagine più aristocraticamente solenni. Qualche lieve incertezza nel canto alato di “Vieni meco, sol di rose” non guastano una prova di indubbio valore.

Il migliore in campo è tuttavia il basso Ildar Abdrazakov, che delinea un Silva austero, ombroso ed insieme signorile, con quel canto nobile e carico di dolente autorevolezza in “Infelice!…e tu credevi”, dove non si sa se ammirare più la bellezza del timbro o il magistero di un canto legato di morbidezza avvolgente. Nella parti di contorno si segnalano le prove di Daria Chernyi, Giovanna, Matteo Desole, Don Riccardo e Alessandro Spina, Jago.

ALÌ BABÀ E I QUARANTA LADRONI

La ripresa della programmazione scaligera, dopo la pausa estiva, ha visto anche l’interessante messa in scena di Alì Babà e i quaranta ladroni, che in età avanzata, al termine di una gloriosa carriera parigina, Luigi Cherubini mise in scena all’Opéra di Parigi nel 1833 con un cast leggendario, che radunava i nomi di Adolphe Nourrit, Laure Cinti-Damoreau, Cornélie Falcon e Nicolas-Prosper Levasseur. La Scala l’aveva già messa in scena nel 1963, ma nella versione ritmica in lingua italiana, ora la riprende e la affida coraggiosamente ai giovani cantanti della Accademia del Teatro alla Scala preparati da Luciana D’Intino, alla direzione d’orchestra di Paolo Carignani e ad un nuovo spettacolo firmato nientemeno che da Liliana Cavani, godibile e colorato. L’opera non sarà forse un capolavoro, ma se risulta tanto convenzionale alle orecchie moderne è perché non la si è proposta come si dovrebbe, ossia in lingua originale francese e con un cast di cantanti che sappiano, al di là degli indubbi meriti emersi da parte di alcuni giovani formatisi alla Accademia scaligera (stilisticamente poco pertinente, ma elemento vocale da seguire con interesse è Riccardo Della Sciucca, nei panni tenorili di Nadir), far rivivere gli stilemi di un canto francese ottocentesco che ha regole ben precise nell’uso della declamazione e che la versione in lingua italiana in buona parte mortifica. Ne nasce così uno spettacolo piacevole, ma che scivola via senza lasciar traccia.

credit foto: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

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