I novelli “riformatori”
“Avanti con le riforme!”, proclama con l’enfasi abituale il capo del governo, imbaldanzito da un risultato elettorale che, in realtà, l’ha premiato solo indirettamente, grazie all’exploit della Lega Nord. Sulle cui “virtù”, detto per inciso, ho letto analisi piuttosto discutibili del tipo: vince perché “è radicata sul territorio”, come se noi, invece, vivessimo e operassimo sulla luna. A riguardo delle riforme, dunque, il Presidente Napolitano si dice “molto sereno, e in attesa, per la fase che si è aperta”. Un ottimismo forse un po’ eccessivo, con tutto il rispetto.
Certo, il Partito Democratico non si è ancora ripreso dalla delusione per l’esito delle “regionali”, ma dovrà farlo presto, perché sarebbe un errore politicamente imperdonabile lasciare l’iniziativa in materia al capo del governo, supportato da Bossi. Riforme che sono indispensabili e urgenti (come si afferma, peraltro, da decenni), e che dovrebbero essere condivise da maggioranza e opposizione, è convinzione generale, e dei grandi opinionisti “moderati” in particolare.
Orbene, io non sono per niente persuaso che, alla fine, si giungerà a un sostanziale accordo tra centrodestra e centrosinistra. Ma, nessuno si scandalizzi, neppure lo auspico. E non perché non abbia a cuore, nel mio “piccolissimo”, l’interesse del paese. Mi spiego: in tema di “riforme”, perlomeno quelle di cui si discute, mi pare che la “visione” dei “democrats” non sia molto compatibile con quella della controparte. Certo, su qualche punto si potrà anche concordare, ma un’intesa complessiva non sarà possibile. Per ragioni soprattutto oggettive, come chiarirò ulteriormente. V’è poi (ma forse viene prima), una questione squisitamente politica, d’importanza fondamentale: un centrosinistra che desse il suo “via libera” a riforme rilevanti concordate con la maggioranza, alla fine contribuirebbe a rilanciare sul versante politico-istituzionale il dominus del PdL, che, anche grazie ai potenti mezzi a disposizione, sarebbe abile a presentarsi all’opinione pubblica come una sorta di nuovo “padre della Patria”. Proprio lui, il personaggio di cui i giudici del processo Mills hanno scritto le cose che sappiamo! Interesse del paese, dovrebbe essere convincimento di ogni sincero democratico (e non sto parlando dei “comunisti”), è liberarsi di Berlusconi, non rafforzarne la presenza nelle istituzioni.
Tornando alle ragioni “oggettive” che, a mio parere, impediranno intese, considero quanto segue, scusandomi se userò un linguaggio politico piuttosto esplicito e non, invece, quello “tecnico-giuridico” (di cui non sono capace, anche se parlo di leggi), e se esprimerò concetti già noti a chi ha la cortesia di leggermi ogni tanto. Le “riforme”, siano esse da realizzare con leggi costituzionali oppure ordinarie, riguarderebbero essenzialmente la giustizia, la questione istituzionale, quella fiscale. Ordunque: sulla giustizia, l’intento del premier ( la sua ossessione) è dichiarato: ridurre, se non cancellare, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, risolvere il problema della lungaggine dei procedimenti impedendo sostanzialmente che questi, stante l’attuale struttura organizzativa della giustizia, giungano a conclusione (il processo breve è questo), difendere dai giudici i vertici istituzionali e, magari, l’intera classe politica. In proposito, sono indubbiamente insopportabili i protagonismi di taluni magistrati, come anche gli arresti facili e la diffusione illecita di intercettazioni che dovrebbero risultare riservate.
Errori gravi, cui va posto rimedio. Ma l’idea madre dei “democratici”, sul tema, non può che essere una giustizia efficiente, che consenta di portare a terminare i processi in tempi ragionevolmente brevi, e non li cancelli, invece, e che la sovranità della magistratura, da esercitarsi nei precisi limiti previsti dalla Costituzione, è da preservare con forza. Sul rapporto “giustizia-politica”, personalmente propendo per il non ripristino di alcuna forma di immunità (un istituto che si giustificava forse nel clima caldo dell’immediato dopoguerra, oggi non più), a nessun livello, vertice dello Stato compreso. Sono anzi dell’opinione, non per fare il dipietrista, che al Partito democratico converrà (parola brutta, ma inevitabile) cavalcare quella protesta che l’approvazione definitiva di norme che vadano in direzione opposta scatenerà. Eventuale referendum compreso.
Circa le riforme più squisitamente istituzionali, la sostanza vera della proposta della destra “unita” è il presidenzialismo, in una forma o nell’altra che sia. Noi (ma anche lo stesso Casini, penso, e l’intera sinistra) non lo possiamo accettare. V’è l’esigenza, certo, di rafforzare in misura sensata i poteri del premier, riconoscendogli per esempio il diritto di scegliere i ministri, e forse qualche altra prerogativa. Ma la nostra stella polare resta la Repubblica parlamentare: il problema, oggi, è, semmai, in quale modo ridare dignità a un ruolo, quello dell’assise nazionale (e non solo di questa), che l’attuale governo sta mortificando ogni giorno di più. Come già adombrato, ulteriormente, nell’attuale contesto, istituire un presidenzialismo (ma i francesi ne sono un po’ stufi?) che contempli, come ha in mente la destra, un’elezione popolare, senza aver in precedenza risolto il persistente, gravissimo problema del conflitto d’interessi (questa sì, materia da “costituzionalizzare”) vuol dire consegnare quasi automaticamente e definitivamente le chiavi del paese nelle mani del padrone di Mediaset. Che è contestualmente padrone, nella sua veste di capo del governo, anche della gran parte della comunicazione politica della televisione pubblica, com’è stato ampiamente dimostrato nelle recentissime elezioni. In argomento, il Pd, con i suoi alleati, dovrà allora fare ogni sforzo per contrastare il disegno del centrodestra, avanzando un coraggioso, pur non necessariamente rivoluzionario, progetto alternativo. Che preveda: un’immediata, drastica riduzione del numero dei parlamentari. Perché, quattro decenni dopo aver costituito i parlamentini regionali, e dopo avere, negli anni recenti, conferito all’ente regione moltissime competenze legislative, non ha più senso mantenere (“absit iniuria verbi”) un migliaio di deputati e senatori “romani”. I tagli che si ventilano in proposito sono sin troppo modesti, via! Vanno altresì ridimensionate, stanti anche i tempi, le relative prebende, come pure le indennità degli amministratori regionali (negli enti locali, Comuni e Province, la situazione è diversa, oggettivamente, ed è assurdo accanirsi su questi livelli istituzionali). Il superamento del bicameralismo perfetto, con la creazione della Camera (o Senato che sia) delle autonomie: pare sia un punto condiviso dalle due parti, ma vorrei vedere. L’inibizione, mi viene da dire, alle Regioni di svolgere attività amministrativa (la quale, di norma, è di competenza degli enti locali) che non risulti indispensabile in quanto direttamente e immediatamente connessa alle funzioni di legislazione, pianificazione e programmazione. Come per i Sindaci, poi, una statuizione definitiva del limite di due mandati anche per i Presidenti delle stesse Regioni : le motivazioni in proposito mi sembrano ovvie.
E ancora: una ridefinizione in senso restrittivo dei casi d’ineleggibilità e, soprattutto, d’incompatibilità, che comporti, a tutti i livelli, il divieto di cumulare più cariche. In tema di Regioni, sarebbe indubbiamente audace proporre un percorso graduale di ripensamento, stante il mutato contesto storico, dei “privilegi” di quelle a statuto speciale. Il Partito democratico dovrebbe proporre altresì la costituzione immediata, nelle aree interessate, delle città metropolitane (previste nel lontano 1990), con contestuale abolizione, negli stessi territori, delle Province. Nell’area milanese sarebbe certo ardimentoso, ma forse doveroso, ripensare la stessa neonata Provincia di Monza, che rappresenta oggettivamente un ostacolo all’obiettivo della città metropolitana di Milano. Serve, infine, una profonda, radicale razionalizzazione del sistema Province, essendo impensabile, io credo, ipotizzare l’abolizione tout court delle stesse, con conseguente trasferimento del le competenze, che sono d’ordine amministrativo – gestione dei problemi di vasta area e la collaborazione con l’ente di livello superiore nell’attività di pianificazione/programmazione- alle Regioni, le quali hanno funzioni d’altra natura. Conseguentemente, abolizione di tutte quelle che non si giustificano in ragione sia di un territorio peculiare anche sotto il profilo, diciamo, geografico, sia di una popolazione adeguata.
Poche parole, infine, sulla questione fiscale: non abbiamo certo una maggioranza di governo vogliosa di combattere a fondo il cancro dell’evasione, che pare in crescendo, come si legge dai dati di sintesi delle dichiarazioni annuali dei redditi, dai cui risulta che nel nostro paese vivono soltanto pochissimi “ricchi”, quasi una manciata! In tale situazione, la ventilata riduzione, pur graduale, delle aliquote solamente a due, è una provocazione, ed è un obiettivo in ogni caso irraggiungibile. Altre proposte in materia difficilmente saranno finalizzate, dal centrodestra, a rendere non solo meno pesante (obiettivo condivisibile) ma anche più equo il fisco. Il federalismo fiscale ansiosamente reclamato dalla Lega, infine, resta una specie di araba fenice, come è parere di molti. E presenta taluni aspetti pericolosi, ribadisce anche ultimamente, sul Corriere, Galli della Loggia. Il quale, pronto a omaggiare in qualche modo i vincitori”, suggerisce a Bossi e compagni di abbandonare (snaturandosi un po’) il progetto federalista, quello fiscale compreso, per assegnarsi “il compito ambizioso della riforma dello Stato, delle sue amministrazioni e delle sue regole”. A presto, perciò, riforme targate prevalentemente Bossi e Berlusconi? Dio ci scampi. Se possibile.
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