4 novembre 1918: Trento e Trieste tornano all’Italia

Esattamente cento anni fa, il 4 novembre 1918, si concludeva la Prima guerra mondiale e Trento e Trieste, le due città irridente, tornava all’Italia. Una vittoria pagata però a caro prezzo con 650mila caduti militari, 590mila vittime civili e altre centinaia di migliaia di feriti e mutilati. Un tragico bilancio, analogo a quello di altre nazioni, dopo un conflitto durato quattro anni. Davvero un’inutile strage come aveva detto papa Benedetto XV, tentando di fermare, con il suo appello alla pace, una carneficina tra le peggiori del vecchio continente.

La guerra cambiò molti confini, con la dissoluzione dell’impero austro-ungarico e il crollo dell’impero germanico. La Francia si vide restituire dalla Germania, l’Alsazia e la Lorena, che erano passate ai tedeschi nel 1870. L’Italia celebrò una vittoria conquistata con le unghie e coi denti, con gli austriaci bloccati sul Piave e a Vittorio Veneto. Passò alla storia, in quei giorni, il telegramma del generale Armando Diaz, comandate supremo del Regio esercito con quelle indimenticabili parole sulle armate nemiche in rotta, che saranno incise su centinaia di targhe in tutto il Paese: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Era la fine di una guerra nella quale, in ultimo dopo la ritirata di Caporetto, vennero gettati in lizza in ragazzi del ’99, giovani di appena diciotto anni, neppure maggiorenni, nel colossale sforzo dell’intera nazione, finalmente davvero tale dopo l’epopea risorgimentale.

In quei giorni di novembre fu completata l’unità nazionale portando a sventolare il tricolore sul castello del Buonconsiglio di Trento e sulla torre di San Giusto di Trieste. Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti erano, in un certo senso, vendicati. Ottenemmo anche Gorizia, Pola e l’intera Istria, nonché l’Alto Adige, seppur abitato da una popolazione prevalentemente tedesca. Eppure i nazionalisti parlarono di vittoria mutilata in quanto non ci venne concessa la Dalmazia, promessa dagli anglo-francesi col patto di Londra, firmato nell’aprile del 1915. D’altronde le terre dalmate, a parte qualche città costiera come Spalato, erano in larghissima parte slave. Poi ci fu l’avventura di Fiume con Gabriele D’Annunzio pronto a difendere l’italianità della città adriatica, anche a costo di insorgere contro il governo legittimo. Quasi la prova generale della Marcia su Roma, in un’Italia che presto si trovò immersa in tensioni sociali di ogni genere con il massimalismo socialista che, sognando la rivoluzione, finì per aprire la strada alla reazione fascista.

In Europa le cose non andarono certo meglio, tra ferite e lacerazioni che segneranno i decenni successivi. La classe dirigente liberale, a differenza di quella democristiana nel secondo dopoguerra, non dette prova di grande lungimiranza. Il trattato di Versailles del gennaio 1919, siglato dall’italiano Vittorio Emanuele Orlando, dal francese Georges Clemenceau e dall’inglese David Lloyd George, umiliò la Germania sconfitta con enormi riparazioni di guerra ed attizzando un revanscismo che pochi anni dopo Adolf Hitler seppe cavalcare nel migliore dei modi. Il vecchio continente usciva insomma dal conflitto con le ossa rotte, esasperando come non mai le questioni nazionali che troveranno un nuovo tragico epilogo, due decenni dopo, nella Seconda guerra mondiale.

Ma questa è un’altra storia che, in quel lontano novembre 1918, nessuno poteva neanche presagire. In quei giorni di cento anni fa, tra mille ansie ed inquietudini, gli italiani sentirono, forse per la prima volta, l’orgoglio di essere divenuti una grande nazione e il tricolore che ormai garriva a Trento e Trieste pareva confermarlo.

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