Novembre 1938: le leggi razziali
Le più vergognose leggi della nostra storia furono approvate ottanta anni fa, sotto il nome di provvedimenti in difesa della razza. Era il novembre 1938 quando il consiglio del Ministri, presieduto dal Duce deliberò l’entrata in vigore delle leggi razziali e da quel momento gli italiani di religione ebraica – una minoranza di circa 50mila persone – vennero discriminati: primo gradino di quello che, in anni successivi, sotto il regime di Salò, divenne aperta persecuzione.
Con le nuove norme agli ebrei fu impedito di far parte dell’amministrazione dello Stato, di insegnare nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, da dove furono allontanati i loro figli, e di svolgere tutta una serie di attività economiche e di libere professioni. Un obbrobrio, etico e giuridico al tempo stesso, con cui l’Italia si incamminava definitivamente sulle orme della Germania nazista e sempre più Benito Mussolini si accingeva a diventare il vassallo di Adolf Hitler.
Proprio il Duce aveva aperto le ostilità contro gli ebrei con un roboante discorso tenuto a Trieste, nel settembre 1938, a conclusione di un’estate nella quale il tema della razza, sino ad allora del tutto estraneo al fascismo, era stato improvvisamente elevato al rango di emergenza nazionale. Alcuni sedicenti scienziati, in luglio, avevano infatti pubblicato il cosiddetto Manifesto della razza, un testo accompagnato da una serie di elucubrazioni, di marca vagamente lombrosiana, sulla presunta fisionomica dell’ebreo, per giungere poi alla conclusione che la razza ebraica era inferiore a quella ariana.
Gli ebrei, da decenni ben integrati nella comunità nazionale, divennero così nemici a prescindere; una minoranza da opprimere e da escludere dal novero stesso della vita sociale e della convivenza civile. E pensare che questa minoranza, sino ad allora si era sentita pienamente italiana ed era sempre stata animata da un forte patriottismo. Aveva combattuto con valore nel Risorgimento e nella Grande guerra e, a conflitto terminato, un certo numero di suoi esponenti avevano aderito al nascente fascismo, condividendo questa nuova ideologia che prometteva un riscatto nazionale.
Fu quindi un vero tradimento quello che il regime perpetrò in quel triste autunno di ottanta anni fa. Un vergognoso tradimento contro una minoranza inerme solo per compiacere il nuovo alleato nazista, che aveva nel suo stesso dna l’antisemitismo. Il fascismo proprio no. Mai era stato antiebraico, tanto che persino Mussolini, solo qualche anno prima, pur parlando di complotti giudaico-plutocratici, incentrava la questioni in termini economici, considerando assurda qualsiasi deriva razzista dell’Italia.
La conversione del Duce fu dunque dettata non tanto da una precisa convinzione ideologica quanto da un mero opportunismo. Un dato che non attenua le sue responsabilità e che fornisce semmai la misura del reale spessore etico di questo capo popolo che ancor oggi qualcuno si ostina a ritenere un grande statista. Ovviamente Mussolini fu seguito dalla classe dirigente del fascismo, anch’essa per lo più lontana da qualsiasi elucubrazione razzista ma che, anche nei suoi uomini migliori, come Dino Grandi o Giuseppe Bottai, si piegò supinamente alla volontà del Capo. E’ un classico di qualsiasi dittatura: servilismo, piaggeria ed opportunismo vi regnano sovrani; non a caso Sandro Pertini affermava che è meglio la peggiore delle democrazia della migliore delle dittature.
Questa deriva razzista resta come una macchia indelebile nella nostra storia; un incancellabile misfatto di cui, oltre al Duce va considerato responsabile, per la sua ignavia, re Vittorio Emanuele III. Egli, che avrebbe potuto respingere quelle leggi tanto ignominiose, rinnegò il suo bisnonno Carlo Alberto che aveva dato piena cittadinanza agli ebrei e calpestò lo Statuto su cui aveva giurato al momento dell’ascesa al trono. Con quella firma svanì, in fondo, la legittimità stessa della monarchia in Italia come garante della nazione, ben prima della sua definitiva uscita di scena col referendum del 1946.
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