Università diffusa: prosegue la scia dei progetti lanciati da Terra Madre

Dopo il grande successo di Terra Madre, l’incontro fra le culture del cibo che si tiene con cadenza biennale a Torino, prosegue la scia di progetti lanciati nel corso della manifestazione.

Il primo fra questi è quello dell’Università Diffusa, concepita come estensione della stessa Terra Madre e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, entrambe nate nel 2004 e oggi riconosciute a livello internazionale. Le due realtà sono infatti il fulcro di una rete creata negli anni da Slow Food, che oggi vanta delegati e aderenti in 160 Paesi, impegnati a salvaguardare prodotti gastronomici riconosciuti come peculiari ed eccellenti, a tutelare la biodiversità in agricoltura come in natura e a rafforzare le economie locali e delle comunità. Un’azione che nel corso degli anni ha fatto rinascere la consapevolezza dell’importanza delle produzioni locali e specifiche, un qualcosa che va ben oltre il folklore ed è in grado di tutelare le economie dei territori, da quelle dei Paesi in via di sviluppo a quelle delle nostre valli alpine.

Una difesa delle tradizioni e delle produzioni artigianali che è il miglior antidoto alla globalizzazione del cibo che ci inonda di prodotti industriali, massificati, standardizzati e, non di rado, di scarsa qualità e potenzialmente insalubri. Senza dimenticare che il sistema agroalimentare globale è responsabile per il 21% delle emissioni che provocano l’effetto serra e i mutamenti climatici, anche a causa delle necessità di trasporto imposte da un sistema di scambi globali. Al contrario, le produzioni locali, oltre a salvaguardare tradizioni e saperi antichi, possono evitare lo spopolamento di zone considerate a torto marginali e possono riattivare un’economia su scala territoriale, con scambi e approvvigionamenti di prodotti cosiddetti “a chilometro zero”.

L’idea dell’Università Diffusa è quella di mettere in dialogo queste realtà e questi saperi, che appartengono appunto alla rete di Terra Madre, con il mondo accademico dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, in un rapporto tra pari dove nessuno rivendichi la verità in esclusiva, ma dove la scienza gastronomica e le conoscenze empiriche di chi pratica il mestiere possano integrarsi e implementarsi a vicenda. L’intento è quello di generare processi virtuosi che incidano in modo positivo su cittadini e territori, rafforzando la sostenibilità alimentare a livello globale e delle singole comunità.

Proprio alla tutela delle economie locali si riallaccia un’altra iniziativa lanciata nel corso della importante manifestazione torinese: quella della difesa dei borghi. In ventidue anni di attività, Slow Food ha già ottenuto un risultato fondamentale, quello del riconoscimento del valore del cibo nella nostra società e nella vita di ognuno di noi. Declinando questo concetto a livello nazionale, occorre ora dare risalto proprio a quelle realtà territoriali dove affondano le radici del made in Italy, quell’eccellenza enogastronomica riconosciuta a livello mondiale. In pratica, occorre rimarcare che è nelle aziende a conduzione familiare e nelle botteghe dei nostri borghi che sopravvive la tradizione, quella sapienza antica che è garanzia di qualità e specificità, agli antipodi di quel sistema agro-industriale che domina il mercato, ma che bada alle logiche del profitto più che a quelle della qualità.

Oggi per fortuna c’è una maggiore consapevolezza della necessità di tutelare il cibo di qualità, ma spesso questo nuovo sentire vira impropriamente sull’aspetto edonistico, con l’esaltazione mediatica della categoria degli chef, osannati come rockstar, mentre ci si dimentica di tutto il resto della filiera, a partire da chi il cibo lo produce, contadini e allevatori. I quali, proprio in virtù di questo ruolo fondamentale, sono anche i primi difensori del suolo, della biodiversità e dei territori. Un’opera preziosa che non viene quasi mai riconosciuta, a livello mediatico, come pure a livello legislativo ed economico. Insomma, raramente a contadini e allevatori viene dato il giusto merito e una corretta retribuzione per quello che fanno e che ha un costo sia in termici economici che di impegno, specie se si vuol tenere alta la qualità. È questa una delle cause principali dell’abbandono delle zone e delle attività rurali, un fenomeno che ha pesanti ripercussioni non solo in campo sociale ed economico, ma anche ambientale, perché è tra i fattori principali del dissesto idrogeologico che caratterizza il nostro Paese.

Se si vuole salvaguardare la qualità del cibo e l’integrità dei suoli, e se si vuole evitare lo spopolamento dei territori e la perdita delle tradizioni locali, occorre dunque sostenere contadini, produttori e allevatori. E uno dei modi più efficaci per farlo è quello di accorciare la filiera, andando a comprare direttamente nelle botteghe dei borghi e nei luoghi di produzione, anziché affidarsi esclusivamente alla grande distribuzione dei centri commerciali . Se compriamo nelle valli e nelle zone rurali, insomma, la montagna e la campagna continueranno a vivere. E a darci prodotti genuini e di qualità.

A questo discorso si ricollega un’altra suggestione sviluppata a Terra Madre, quella di trovare alternative praticabili alla produzione industriale di cibo, attraverso gli allevamenti di qualità, un modello grazie al quale l’interazione fra uomo e animale può salvaguardare territorio e ambiente. La parola d’ordine in questo caso – oltre che qualità – è varietà. Varietà di specie e di razze, differenze nelle tecniche di allevamento e di lavorazione delle carni, ricchezza culturale e ambientale, così da ottenere una miriade di prodotti peculiari, distintivi di territori e comunità di produzione. Una soluzione produttiva che vuole discostarsi significativamente dallo sfruttamento intensivo praticato negli allevamenti animali di tipo industriale, che vale sia per la carne che per il pesce, come pure per i prodotti derivati (latte, uova, prodotti caseari, conserve alimentari ecc.).

Meno produzione, ma di migliore qualità, in grado di tutelarci anche dai numerosi casi di frodi alimentari o addirittura di emergenze sanitarie che troppo spesso hanno interessato le cronache o peggio hanno rischiato di finire sulle nostre tavole. Perché non va dimenticato che la prima regola per mantenere una buona salute è fare opera di prevenzione, partendo proprio dalla salubrità della nostra alimentazione, nella quale genuinità ed eccellenza produttiva giocano un ruolo fondamentale.

Certo, il cibo di qualità, prodotto e venduto su piccola scala, in genere costa di più di quello industriale commercializzato su larga scala dai colossi dell’agroalimentare e della grande distribuzione. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare il monito degli antichi: siamo quello che mangiamo. Nei limiti delle possibilità di ognuno, a noi dunque la scelta fra qualità ed eccellenza o basso prezzo e massificazione alimentare.

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