“Attila” di Giuseppe Verdi inaugura la stagione del Teatro alla Scala

Con la drammatica direzione di Riccardo Chailly, lo spettacolo kolossal di Davide Livermore e un grande cast vocale

Il 7 dicembre scaligero del 2018 si ricorderà (e non solo) per il lungo applauso decretato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al suo ingresso nell’infiorato palco reale del Teatro alla Scala. Forse mai nessun Presidente era stato accolto con un simile applauso in occasione della serata inaugurale di Sant’Ambrogio. Il tutto è avvenuto poco prima che il maestro Riccardo Chailly attaccasse l’inno nazionale, cantato da tutti con una partecipazione carica di risvolti simbolici, come a voler palesare la condizione di disagio di un’Italia in crisi di identità politica che, sempre più incerta, si stringe attorno al suo Presidente in una serata mondana che diviene così anche emblema di attaccamento alle radici culturali del Belpaese (l’opera lirica è stata inventata da noi ed è uno dei nostri passaporti culturali migliori nel mondo), rendendoci tutti un po’ più consapevoli della nostra identità, così incerta in questi tempi bui, dove aggrapparsi al valore morale del proprio Presidente significa infondo lanciare un monito di allarme alla Nazione in difficoltà.

Emozioni vissute dal pubblico presente in sala, ma anche da chi ha seguito lo spettacolo in diretta TV (su Rai1), o sui grandi schermi posizionati in molti punti strategici di Milano. Il titolo scelto è stato Attila, opera del giovane Verdi, composta nei cosiddetti “anni di galera”, un tempo considerata minore dalla critica crociana, mentre oggi, ormai certi che non esistano partiture del “Cigno di Busseto” da considerarsi meno significative rispetto ad altre, entrata quasi nel repertorio corrente.

La versione ascoltata a Milano aveva alcuni punti di interesse inediti, voluti dal Direttore Musicale della Scala, Riccardo Chailly, convinto sostenitore del Verdi giovanile. Ed ecco la scelta di eseguire alcune battute, cinque per la precisione, composte a Parigi da Gioachino Rossini, che creano un clima di suggestiva sospensione dell’azione prima dell’attacco del terzetto dell’ultimo atto e, soprattutto, la decisione di inserire l’aria che Verdi si trovò a comporre, dopo la prima veneziana del 1846, in occasione del debutto milanese di Attila al Teatro alla Scala nello stesso anno, appositamente per Napoleone Moriani, noto nell’Ottocento coll’appellativo di “tenore della bella morte”, che cantò l’aria “Oh dolore”, al posto di “Che non avrebbe il misero”; una pagina certo più delicata e d’involo melodico patetico, che risentita in questa occasione (alcuni la conoscevano dall’incisione discografica che Luciano Pavarotti ne fece nel celebro disco “Verdi inedito” diretto da Claudio Abbado) è parsa assai bella, malinconicamente sostenuta dal suono dell’arpa. Una volta annotate queste particolarità, che hanno donato un valore aggiunto alla esecuzione di questo Attila, è inutile nascondere che Chailly, alla testa di una Orchestra e di un Coro (istruito magnificamente da Bruno Casoni) che, per qualità,  meriterebbero di essere considerati patrimonio artistico dell’umanità, abbia impresso alla partitura l’impronta direttoriale che gli è propria, concentrata su una drammaticità a chiazze coloristiche drammaticamente espanse, senza spingere il pedale di una ritmicità verdiana infuocata ed incalzante, eppure risultando a suo modo vibrante nello scavo interiore cupo e sempre attento ai particolari che donano alla sua lettura una tinta espressiva a macchie scure, con un suono magmaticamente denso e catramoso.

Il tutto calza a pennello con lo spettacolo di Davide Livermore, spettacolare sì, per la ricchezza dell’apparato scenografico dello Studio Giò Forma, con costumi di Gianluca Falaschi e per l’impiego di soluzioni multimediali di D-Wok, eppure saggiamente equilibrato nel soddisfare gli estimatori degli effetti kolossal insieme a quelli del teatro di regia. L’Italia romana invasa da Attila diviene così un distopico mondo novecentesco dittatoriale crudele, con fucilazioni in diretta e violenze sommarie (l’uccisione della madre dinanzi al proprio figlio fa subito pensare alla celebre scena finale del film Roma città aperta di Roberto Rossellini). Da un lato lo spettacolo evoca atmosfere da seconda guerra mondiale (con un altrettanto evidente citazione cinematografica al disfacimento del mondo barbarico messo in parallelo con climi bellici di degrado morale che paiono richiamare visioni del film La caduta degli dei di Luchino Visconti), dall’altro richiama gli orrori postmoderni di una società proiettata in un futuro disfacimento da apocalisse fantascientifica, dopo ogni utopia del bene viene oscurata. Ecco perché l’impianto scenico, davvero di effetto, mostra strutture metalliche fuse con rovine romane in pietra, fondali ove scorrono scure nubi di tempesta su macerie e rovine di palazzi bombardati alternati alla visione di quadri viventi che prendono vita in modalità multimediale da uno degli affreschi di Raffaello della Stanza di Eliodoro nei Musei Vaticani, quello che ricorda il celebre incontro fra Attila e Papa Leone. Il tutto appare efficace, a suo modo giusto nell’evidenziare il vero spirito dell’opera, affrancandosi dallo stereotipo di Attila come opera “risorgimentale” e del protagonista come “flagello di Dio” che invece appare umanamente superiore rispetto a chi lo tradisce e raggira. Verdi riscatta sempre l’uomo, ed in questo caso rivaluta l’umanità di Attila, rendendolo un barbaro intimamente tormentato ed insicuro, sanguinario ma leale. Così lo spettacolo rimarca saggiamente la differenza fra lui e il disfacimento sociale e morale che attornia un mondo devastato dalle violenze della guerra e dal sopruso.  

Ildar Abdrazakov, Attila, basso russo già noto per essere stato protagonista di quest’opera in più occasioni, si conferma cantante di levatura vocale ed espressiva superiori. Altero nel portamento ma nobile nel gesto, canta splendidamente e regala nella scena del sogno del primo atto accenti commossi nell’aria “Mentre gonfiarsi l’anima”, dove la voce appare morbida e calda. Nella successiva cabaletta è sicuro nell’ascesa all’acuto (con una puntatura finale davvero inebriante, dal suono perfettamente immascherato), ma il canto non dimentica mai gli accenti che rendono l’indole dell’implacabile invasore più umana che barbarica, colma di sensibili risvolti introspettivi. Veramente una grande prova, che svetta sul restante cast, nel quale si segnalala prova del soprano Saioa Hernández, Odabella di slancio vocale intrigante, svettante, addirittura perentoria in acuto e di bella sostanza vocale, con piccole imprecisioni nel canto di agilità ed un vibrato controllato, anche se qua è là, in particolare nell’aria “O del fuggente nuvolo”, non le consente di alleggerire l’emissione secondo le esigenze di un canto lirico più sfumato e sospeso. Ma è evidente che anche per lei si può parlare di una prova vocale ragguardevolissima, che conferma le qualità di una cantante in continua ascesa, che dopo le felici prove al Teatro Municipale di Piacenza ne La Wally di Catalani e ne La Gioconda di Ponchielli fa il suo debutto alla Scala in una parte per lei nuova.

George Petean, nei panni del generale romano Ezio, è un baritono di sicura tenuta vocale, che sa anche cantare sul fiato e ben legare; non si risparmia mai, anche quando dovrebbe magari farlo, come nella puntatura acuta finale della cabaletta “È gettata la mia sorte”, per lui un po’ estrema.

Anche Fabio Sartori, Foresto, seppure timbricamente un po’ ruvido ed espressivamente perfettibile, è un tenore di tutto rispetto e canta al meglio delle sue possibilità, tentando di addolcire l’emissione nella citata aria “Oh, dolore” dopo un’aria e cabaletta di sortita risolte nel prologo con solida sicurezza. Insomma un quartetto di interpreti davvero efficace, completato dal bravo basso Gianluca Buratto, Leone, e dal tenore Francesco Pittari, Uldino.

Una riuscita inaugurazione di stagione, con tanti applausi, anche per la seconda recita dell’11 dicembre, della quale riferiamo. La Scala, ancora una volta, si conferma emblema della nostra più alta qualità operistica.

Foto Brescia & Amisano

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