Mobilità elettrica – il caso Italia

                  

Il 2019 potrebbe essere l’anno della svolta per la mobilità elettrica in Italia? Il punto interrogativo è d’obbligo, visto come (non) funzionano le cose nel nostro Paese. In particolare, ci riferiamo alla surreale vicenda della “ecotassa” sui veicoli più inquinanti, varata dall’esecutivo nelle scorse settimane, fra molti ripensamenti e valanghe di critiche.

Ora, non c’è dubbio che questo provvedimento abbia avuto un iter travagliato e conseguentemente sia parziale e imperfetto, tuttavia promulgandolo l’Esecutivo ha cercato di indirizzare l’Italia nella stessa direzione già imboccata da numerosi Paesi, europei e non solo, che hanno finalmente compreso l’urgenza di contrastare l’inquinamento ambientale e il riscaldamento globale con misure adeguate,anche nell’ambito della mobilità, responsabile di una quota rilevante di emissioni dannose.

Solo che da noi si è assistito a una serie di reazioni scomposte che denunciano l’arretratezza del nostro Paese dal punto di vista culturale prima ancora che tecnologico. Perché le questioni vengono affrontate in modo demagogico e settario, con molta disinformazione e troppa attenzione per interessi che nulla hanno a che vedere col progresso e il bene comune.

Vediamo di analizzare in linea generale e poi nel dettaglio della questione quello che succede.

Prima di tutto, vige la regola degli schieramenti, in campo politico ma non solo. Ovvero, tutto ciò che dice il mio avversario è sbagliato e va contestato per definizione, anche quando potrebbe essere giusto. Poi c’è una atavica tendenza al conservatorismo, anche da parte di coloro che si dichiarano “progressisti” e “innovativi” e parlano in continuazione di “sviluppo”, ma sempre ricalcando schemi e paradigmi obsoleti, che da tempo si rivelano drammaticamente inadeguati e deleteri. In più, continua a imperare il capitalismo, nel senso che si tende a dar sempre ragione al capitale, con una politica supina agli interessi dei potentati economici.

Questi difetti generali li ritroviamo tutti nella vicenda “ecotassa”, vediamo come.

Appena il Governo ha presentato il progetto per la rimodulazione degli incentivi secondo uno schema bonus/malus, c’è stata l’immediata levata di scudi delle opposizioni, che hanno paventato conseguenze terribili sul settore automotive in caso di applicazione delle nuove direttive. Una battaglia di retroguardia, visto che provvedimenti simili sono già stati adottati da altri Paesi UE proprio per dare un nuovo indirizzo alle Case automobilistiche, incentivate ad accelerare la transizione verso motorizzazioni veramente alternative, ovvero quelle elettriche o perlomeno ibride, invece di insistere sui motori termici a combustibili fossili, ormai al termine della loro fase evolutiva. Una “marchetta” nei confronti dei produttori, anche se abilmente mischiata a motivazioni di ordine sociale, con la presunta difesa dei ceti meno abbienti, che non potrebbero permettersi i veicoli a propulsione elettrica, ritenuti ancora troppo costosi, anche se nella realtà le cose stanno diversamente.

Eccoli lì, tutti i difetti elencati in precedenza: critica delle iniziative degli avversari anche se condivisibili, difesa di una concezione di “sviluppo” obsoleta che ci incatena al passato, disinformazione, tutela di interessi economici che si tutelano benissimo per conto loro.

Infatti, a proposito di combustibili fossili, a buttare benzina sul fuoco è arrivata immancabilmente FCA, azienda multinazionale a trazione americana che molti si ostinano a identificare con FIAT, quella Fabbrica Italiana Automobili Torino che ormai esiste solo nei ricordi e nelle illusioni di qualcuno. L’azienda ha comunicato che a causa delle misure adottate avrebbe rivisto il piano di investimenti previsto in Italia, aumentando ancor più la polemica e guadagnando il supporto di larga parte di politica e sindacati, ovvero di coloro che dovrebbero rappresentare cittadini e lavoratori, ma ancora non hanno capito come stanno le cose, o fanno finta di non capire.

La realtà è che a partire dalla cosiddetta acquisizione di Chrysler da parte di Fiat il baricentro della multinazionale si è spostato in modo sempre più marcato verso interessi e mercati americani, mentre gli stabilimenti italiani venivano progressivamente dismessi. Permane unicamente l’interesse su alcuni marchi, che riecheggiano i fasti di un “made in Italy” ormai solo di facciata. Per anni l’azienda ha promesso investimenti e messa in produzione di nuovi modelli, impegni puntualmente disattesi. Soprattutto, per anni FCA ha sostenuto che non avrebbe costruito auto elettriche o ibride a meno di non essere obbligata, come nel caso della California, che impone ai produttori una quota di elettrico per poter accedere a quel ricco mercato. Questo mentre praticamente tutti gli altri produttori iniziavano a muovere passi in quella direzione, chi più chi meno.

Per questo a molti è sembrata tardiva e inattendibile l’inversione di rotta con la quale Marchionne, poco prima della sua scomparsa, ha annunciato la svolta “elettrica” di FCA. Più che una strategia industriale, è sembrata una tattica di marketing, buona per mantenere alto il valore dei marchi in vista di ulteriori dismissioni, dopo la cessione di Magneti Marelli, azienda leader nel campo delle batterie, ovvero l’ultima cosa che si dovrebbe vendere se davvero si vuole puntare sull’auto elettrica.

Anche l’entità degli investimenti annunciati appare sottodimensionata per un deciso cambio della produzione, mentre i tempi previsti sono biblici, persino per quanto riguarda la 500 elettrica, auto già in produzione. Insomma, le dichiarazioni di FCA sembrano tecniche dilatorie per non ammettere la volontà di abbandonare l’Italia, e i manager di Detroit non hanno perso l’occasione di sfruttare la “ecotassa” come pretesto per rimangiarsi ancora una volta la parola data. 

A fronte di questo atteggiamento ricattatorio dell’azienda, un ampio ventaglio di soggetti – da Confindustria ai sindacati metalmeccanici, passando per i partiti di opposizione – se l’è presa con i provvedimenti del Governo, anziché spronare FCA a imboccare con decisione la strada dell’auto elettrica, come stanno progressivamente facendo le altre Case produttrici. Segno che la mentalità politica e imprenditoriale è ancora ferma al secolo scorso, quando si diceva “ciò che è bene per Fiat è bene per l’Italia” e lo sviluppo si basava sulla motorizzazione di massa e la ramificazione dell’infrastruttura stradale.

Un modello che oggi non è più sostenibile, visti i problemi di inquinamento, consumo di suolo e riscaldamento globale che stiamo vivendo, ormai talmente evidenti che tutti iniziano a rendersene conto. Tuttavia, nonostante l’evidenza dei disastri che stiamo alimentando e di cui ormai conosciamo le cause, resta questa inerzia generale ad accettare la necessità del cambiamento, specie nel nostro Belpaese.

Ma il cambiamento è comunque in atto, ed è irreversibile. Perché coloro che sono passati alla mobilità elettrica, nonostante gli inevitabili problemi legati a una tecnologia ancora di nicchia, sono generalmente soddisfatti e non tornerebbero indietro verso il motore a scoppio. È proprio questa avanguardia di pionieri entusiasti il segnale inequivocabile che ormai la strada è imboccata e che la direzione è quella giusta.

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