“La traviata” dei record
Lo storico spettacolo di Liliana Cavani torna al Teatro alla Scala con protagonista Marina Rebeka e sul podio Myung-Whun Chung
Molti sanno, ma è doveroso ricordarlo per chi è meno addentro ai casi del mondo dell’opera, che dopo la leggendaria Traviata del 1955, firmata dalla regia di Luchino Visconti e con un mitico terzetto di protagonisti (Maria Callas, Giuseppe Di Stefano e Ettore Bastianini), il Teatro alla Scala mise in scena l’opera di Verdi solo nel 1964. Certo, sul podio c’era Herbert von Karajan e la regia fu affidata a Franco Zeffirelli, ma al pubblico, o meglio, ai cosiddetti “vedovi Callas”, la Violetta di Mirella Freni non piacque affatto. Così, onde scongiurare il pericolo di un nuovo fiasco, non scontato ma alquanto prevedibile, il più grande teatro d’opera del mondo “bandì” dalle sue scene questo celeberrimo titolo per ben ventisei anni.
Fu il maestro Riccardo Muti che, dall’alto del suo carisma e amore per Verdi, ebbe il “coraggio” di sfidare ogni paura e riportò alla Scala La traviata nel 1990, con l’allora debuttante ed ancora quasi sconosciuta Tiziana Fabbricini. Fu insomma lui a scacciare i fantasmi di un passato troppo ingombrante. Lo spettacolo vide allora Liliana Cavani firmare la regia di una messa in scena sontuosa e nel segno della tradizione, con scene di Dante Ferretti e costumi di Gabriella Pescucci che evocano atmosfere gattopardesche. Da allora questo allestimento è ritornato alla Scala in diverse stagioni (1991, 1992, 1995, 1997, 2001, 2002, 2007, 2008, 2013, 2017).
Sono insomma passati ventinove anni ed ancora oggi, per la sua ennesima ripresa nella stagione in corso, le ben dodici recite in cartellone registrano un tutto esaurito da record. Certo il pubblico è cambiato: ormai la sala è colma di stranieri che vengono alla Scala forse per il solo gusto di dire di esserci stati, scattando foto e selfie (se non ci fosse il controllo delle maschere, si azzarderebbero a farlo, con tanto di flash, anche durante l’esecuzione) come se visitassero un monumento o un museo più che per apprezzare il valore dell’esecuzione. Eppure non si può negare che il marchio qualitativo scaligero si mantenga sempre su livelli altissimi, anche in serate di solida routine come quella di sabato 2 febbraio, della quale riferiamo. Inutile ribadire che l’allestimento rimane bellissimo, sfarzoso e di grande effetto, checché ne dicano alcuni critici smaniosi di archiviarlo.
Nel cast spicca la Violetta del soprano lettone Marina Rebeka, donna bellissima al pari della voce, di una luminosità tale da invadere la sala scaligera senza problemi. È impeccabile sempre, anche in un finale del primo atto risolto senza colpo ferire, con tanto di mi bemolle a chiusa del “Sempre libera”, che le riesce non poi così male. Essendo un soprano lirico, prende quota negli atti successivi, dove la correttezza della linea di canto è innegabile e convince pienamente in un esemplare “Addio del passato”, intonato con un bel gioco di sfumature e colori. Ma è come se un certo distacco espressivo accompagnasse la sua pur ragguardevole prova privandola dell’intensità emotiva colta invece mirabilmente da Ermonela Jaho (voce decisamente meno preziosa rispetto a quella della Rebeka) nella Traviata trasmessa in diretta dal Covent Garden di Londra nei cinema di mezzo mondo pochi giorni prima (il 30 gennaio), a conferma di come, per essere una Violetta di riferimento, ci si debba imporre come grande interprete prima ancora che cantante. Non riconoscere tuttavia alla Rebeka di essere uno dei migliori soprani di oggi sarebbe come negare che in autunno cadono le foglie.
Al suo fianco, René Barbera, tenore americano di estrazione belcantistica, si ammira per la freschezza del timbro e l’eleganza dell’emissione. Alla Scala, nella passata stagione, era già stato Ernesto nel Don Pasquale di Donizetti diretto da Riccardo Chailly, mentre il prossimo settembre sarà Nemorino ne L’elisir d’amore. È forse un po’ leggero per la parte di Alfredo, ma canta sempre con garbo (bellissima la morbida smorzatura su “io vivo quasi in ciel” sul finire dell’aria “De’ miei bollenti spiriti”) e svetta in acuto con sicurezza, con tanto di puntatura al termine della cabaletta “Oh mio rimorso! Oh infamia!”.
Leo Nucci si difende come un leone ferito per affermare la sua supremazia vocale ed interpretativa di cantante verdiano di alta classe. Il suo è un Germont tutto giocato sugli accenti e la parola scenica. Riesce ancora a convincere, anche se qualche smagliatura vocale comincia a sentirsi. D’altronde gli anni di carriera sono tanti e l’età pure. Il valore dell’artista resta tale, anche se eterni non si è; prima o poi lo si deve capire e accettare!
Myung-Whun Chung, direttore che in queste ultime stagioni si è prodigato molto in Verdi con risultati sempre apprezzati, dirige una Traviata elegante e dalle sonorità equilibrate, ma senza approdare ad una visione interpretativa realmente illuminante. Eppure talune fascinose lentezze negli accompagnamenti sono degne di nota, così come il preludio al terzo atto è addirittura miniato, con quel lamento straziante ed estenuato degli archi che conquista più del solito. Il suono dell’orchestra scaligera e la qualità del Coro, superbamente istruito da Bruno Casoni, sono poi un elemento determinate per la riuscita di una serata acclamatissima dal pubblico.
Ultimate le recite di febbraio, lo spettacolo si riprende in marzo, con Sonya Yoncheva come protagonista e con Placido Domingo nei panni di padre Germont.
Foto Brescia & Amisano
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