Battaglia di retroguardia
Nel momento in cui il governo ha varato gli eco-incentivi per l’acquisto di vetture elettriche e ibride, abbiamo assistito a una levata di scudi contro il provvedimento, giudicato penalizzante per l’industria automobilistica italiana. Si tratta di una battaglia di retroguardia, a difesa di interessi e rendite di posizione che non si vuol mettere in discussione, nonostante tutto indichi che la direzione imboccata è finalmente quella giusta.
Di fronte a una rivoluzione tecnologica come si preannuncia essere quella della riconversione della mobilità dai motori termici a quelli elettrici, bisognerebbe avere il coraggio e la capacità imprenditoriale di coglier la sfida e considerarla un’opportunità straordinaria. Invece, in Italia, sono ancora troppi coloro che cercano di opporsi in ogni modo allo sviluppo della mobilità elettrica, spesso con argomentazioni pretestuose quando non palesemente false.
Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro che chi scommette contro il futuro è destinato a perdere. Quello che registriamo è un atteggiamento poco lungimirante, che ancora una volta rischia di allontanare il nostro Paese dal novero delle nazioni più evolute, proseguendo sulla china di quel declino economico e industriale che ci affligge ormai da decenni.
Tra i tanti che hanno fatto sentire la propria voce contro l’elettrico, anche Alberto Bombassei, Presidente di Brembo S.p.a., azienda leader nella produzione di sistemi frenanti e membro di spicco di Confindustria, dunque interprete non solo di una posizione personale, ma anche di quella di una larga parte dell’imprenditoria italiana. In una intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore, Bombassei sostiene che la transizione verso l’auto elettrica potrebbe comportare la perdita di un milione di posti di lavoro in Europa. Inoltre, l’industriale lamenta che l’UE non ha fatto abbastanza per difendere le motorizzazioni diesel e che si dimostra troppo supina agli interessi delle aziende che producono e distribuiscono elettricità.
Ora, l’autorevolezza del personaggio, esponente di spicco della classe industriale italiana, non è certo in discussione. Ma proprio per questo le sue affermazioni dovrebbero preoccupare, perché mostrano quanto la classe imprenditoriale italiana sia ancorata a schemi destinati a diventare obsoleti in tempi straordinariamente brevi, incapace di intuire il futuro e investire massicciamente su una transizione inevitabile, anziché difendere il proprio business consolidato. Per capirci, è come se all’inizio del ‘900 qualcuno avesse paventato il tracollo del settore delle carrozze e dei cavalli di fronte all’avanzare dell’industria automobilistica.
In realtà, in Europa hanno già iniziato a capire in quale direzione soffia il vento e molti grandi produttori si stanno attrezzando per recuperare il tempo perso a difendere l’indifendibile. In effetti, l’UE ha difeso fin troppo a lungo i motori termici, in particolare il diesel, con cicli di omologazione irrealistici che consentivano di dichiarare consumi ed emissioni fantasiosamente ottimistici. Senza contare la mancanza di controlli severi, che hanno consentito alle Case automobilistiche anche di truccare i risultati, fino allo scoppio del famigerato dieselgate, lo scandalo che ha messo a nudo i reali valori di inquinanti emessi rispetto a quelli dichiarati, infliggendo un colpo fatale a quel tipo di motorizzazione. A quel punto, si sarebbe dovuto prendere atto della necessità di abbandonare progressivamente il diesel e, in prospettiva, la benzina, per implementare la produzione di veicoli elettrici o perlomeno ibridi. Invece, specialmente in Italia, si è continuato ottusamente a proseguire su una strada tanto nota e tracciata, quanto senza via di uscita.
Esattamente come non avremmo mai scoperto la lampadina se avessimo continuato a cercare di migliorare le candele, così non si può pensare di migliorare all’infinito le prestazioni di un motore termico, perché avrà sempre una certa quota di emissioni nocive, contro le emissioni zero del motore elettrico. Senza contare l’efficienza di un propulsore elettrico, praticamente tripla rispetto a quella di uno alimentato da combustibili fossili. La miopia della classe imprenditoriale europea e in particolare italiana ci ha fatto perdere tempo prezioso, consentendo alla Cina di diventare leader del settore, avanti anche rispetto agli Usa. Tant’è vero che le amministrazioni comunali che decidono di dotarsi di autobus urbani elettrici devono spesso fare riferimento a Pechino, visto che noi abbiamo affossato la nostra industria nel settore.
Qualcuno ha calcolato quanti posti di lavoro ci è costata e ci costerà la strenua difesa di un paradigma industriale basato sui combustibili fossili, insostenibile sotto ogni punto di vista?
Qualcuno ha calcolato quanti posti di lavoro potrà offrire un nuovo modello di sviluppo, basato su energie rinnovabili, mobilità elettrica, economia circolare che consenta il riutilizzo delle batterie per lo stoccaggio di energia dopo che avranno esaurito la loro funzione di fornire potenza per la trazione veicolare?
A sentire molte voci dell’imprenditoria e della politica italiana sembrerebbe di no, ma per fortuna non è così. Anche da noi, qualcuno ha capito le straordinarie possibilità offerte dalla nascita e dallo sviluppo di un tipo di produzione innovativo, destinato ad avere enormi impatti su ogni aspetto della nostra vita. È grazie a questa minoranza lungimirante che – forse – potremo rimanere agganciati a un’Europa che ha capito di doversi muovere in questa direzione, perché è quella giusta.
A dimostrazione di ciò, vale l’esempio della Norvegia. Il paese scandinavo, pur essendo il maggior produttore di petrolio d’Europa, ha puntato da tempo sui veicoli elettrici, proprio grazie a incentivi come quelli varati ultimamente dal nostro esecutivo. I risultati, in pochi anni, sono di assoluto rilievo: per quanto riguarda gli acquisti, su tre nuove auto immatricolate una è elettrica, una tendenza in continuo aumento. Questo fa sì che attualmente il 13% del parco circolante sia costituito da vetture elettriche, cifra che sale al 24% se aggiungiamo le ibride plug.in, cioè quelle auto con doppia motorizzazione termica-elettrica dotate anche di spina per ricaricarsi dalla rete elettrica domestica o dalle apposite colonnine.
Questi numeri rendono piuttosto realistico l’obiettivo di arrivare, al 2025, alla completa elettrificazione del parco circolante. Un risultato che consentirebbe di abbattere consumi e inquinamento in misura rilevante, ottenuto in pochi anni proprio perché qui nessuno “rema contro” o avanza obiezioni e problematiche pretestuose, nonostante, lo ripetiamo, l’industria petrolifera abbia grande peso nell’economia nazionale.
Forse perché i norvegesi hanno una concezione più pregnante di “bene comune” e, a differenza di quanto avviene in Italia, pensano più a tutelare i diritti di tutti che gli interessi di pochi.
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