“Chovanščina” in un futuro postatomico
Al Teatro alla Scala l’opera di Musorgskij messa in scena da Mario Martone e superbamente diretta da Valery Gergiev
Oscure congiure e rivolte accompagnarono nel tardo Seicento il torbido periodo che precedette l’ascesa al trono di Pietro il Grande, lo zar che europeizzò la Russia facendola uscire da un periodo buio, feudale e di forti contrasti sociali. Nella Chovanščina la figura dello zar Pietro aleggia incombente, eppure la sua presenza in scena non è mai prevista. All’opposto Mario Martone decide, per il suo nuovo allestimento dell’opera di Musorgskij al Teatro alla Scala, di farlo apparire più volte, ancora bambino, accompagnato dalla madre Sofia, zarina reggente sul trono in attesa che gli eredi legittimi raggiungessero la maggiore età; ecco perché la si vede spesso in palcoscenico conducendo con sé per mano i figli Ivan e Pietro.
Quest’epoca è un affresco di contrasti politici e religiosi frastagliatissimo, dove capita davvero di tutto e la violenza è una costante irrinunciabile. Non è tuttavia la fedeltà storica alla quale mira Musorgskij, che nella stesura del suo libretto vuole piuttosto dare l’immagine dell’ombra subdola del potere che regola i destini della Russia, nella vana prospettiva che dal caos nasca un futuro migliore per questo popolo eternamente vittima di sfortuna e dolore. Ed ecco i fanatici vecchi credenti, Raskol’niki, con il loro rigido bigottismo religioso (ne è guida spirituale, sostenitore dell’antica fede, il monaco Dosifej), che si spinge fino al martirio di massa; il violento corpo di guardia personale dello Zar, gli Strel’cy (fondato durante il regno di Ivan il Terribile), personaggi che si appoggiano al credo religioso solo per smania di potere.
A tutto questo si aggiungono fatti delittuosi e soprusi che in scena danno l’idea della forza sprigionante da un’opera in cui la fatica del vivere, espressa dalla coralità sofferente della massa popolare, è riflesso di un mondo dove pare impossibile trovar pace e serenità; una disperazione intrisa di senso di colpa e di suggestioni dostoevskijane. Da qui partiamo per annotare il clima apocalittico che aleggia su un’opera che la regia di Mario Martone rivisita calando la vicenda in un futuro postatomico di degrado e morte; un mondo che ha perso ogni segno di civiltà, distrutto e grigio, dove regna l’ingiustizia e la superstizione. L’impianto scenico monumentale di Margherita Palli (i costumi, altrettanto efficaci, sono di Ursula Patzak) è un cumulo di macerie e di architetture ferrigne post-industriali in rovina avvolte dalla nebbia, all’interno delle quali avvengono scontri di bande nemiche in lotta per il potere. Ci sono simboli della modernità (cellulari e telecamere con i quali si riprendono fatti delittuosi) e droni che attraversano cieli plumbei e inquieti. Un futuro nutrito di modernità senza speranza, carico di suggestioni cinematografiche (si pensa a Blade Runner, The day after e Melancholia) calate in un’atmosfera intrisa di un’angoscia così opprimente che nessuna concessione al color locale russo sarebbe ammissibile, neanche nelle danze persiane, trasformate in ballo erotico-orgiastico di escort che si conclude con l’assassinio di un Ivan Chovanskij ormai ubriaco fradicio ed in preda ai sensi, freddato non da un sicario ma dalle stesse ballerine che poi lo fotografano cadavere in segno di estremo sprezzo. Uno spettacolo che riserva il coup de théâtre finale con l’incendiarsi di un pianeta che si infiamma per poi abbattersi sulla terra disseminando un’apocalisse attraverso la quale avviene l’Olocausto dei vecchi credenti capitanati da Dosifej.
Inutile dire che per uno spettacolo di tal fatta, fra i più coinvolgenti visti alla Scala negli ultimi anni, ci vuole una direzione musicale parimenti illuminante. Così è quella di Valery Gergiev, che non solo conosce oggi questa partitura più di ogni altro (già la diresse alla Scala nel 1998 oltre che, in patria, al Teatro Marinskij), ma fa bene ad utilizzare la revisione ed orchestrazione di Šostakovič, che da sempre ha preferito rispetto a quella di Rimskij-Korsakov; evita ogni enfatizzazione o retorica e gioca di cesello utilizzando lo strumentale a fini espressivi attraverso sonorità rarefatte, percorse da brividi sonori che illuminano sia il tessuto orchestrale, sia il canto di conversazione di cui è intrisa la vocalità di quest’opera dal respiro epico. Nulla è affidato al caso e questo mondo di disperata sofferenza pare dipinto con i colori lividi ed emotivamente carichi di un’angoscia senza respiro, tutta interiore, che pervade l’animo dell’ascoltatore. L’Orchestra scaligera è meravigliosa, così come il Coro, istruito da Bruno Casoni, una massa umana compatta che canta le sofferenze della Russia e ne diviene l’emblema stesso.
Il cast vocale, omogeneo e teatralmente efficace, pur senza elementi di spicco, vede emergere la Marfa sinistra di Ekaterina Semenchuk, mezzosoprano capace di sfumature espressive pervase di visionaria allucinazione emotiva, a favore dell’immagine di donna gelosa, lacerata per un amore impossibile ed ossessivo, più che spiritata veggente chiusa nel suo profetizzare da indovina. Le voci gravi sono tutte eccellenti, dall’Ivan Chovanskij ruvido e aitante di Mikhail Petrenko, al sobrio e composto Dosifej di Stanislav Trofimov; dallo splendido baritono Alexey Markov, un cinico Šaklovityj, che tuttavia, nel monologo del terzo atto, sembra placare per un attimo la sua corsa verso il male narrando con solenne commozione le sventure della Russia, ai tenori Evgeny Akimov, incisivo e febbrile Vasilij Golicyn, e Sergey Skorokhodov, Andrej Chovanskij, perfettamente compreso nell’indole caratteriale impetuosa e tormentata del personaggio. Il cast funziona anche nelle parti di contorno, ad esempio con Maxim Paster, lo Scrivano, e con una trascinante Evgenia Muraveva, Emma, addirittura un lusso per una parte come questa.
Dopo oltre quattro ore, che scivolano via coinvolgendo il pubblico in un susseguirsi ininterrotto e teso di accadimenti, si esce come ipnotizzati dalla carica di eccezionale forza teatrale e dall’ancor più ispirata profondità di una lettura musicale tanto analitica ed emotivamente pregnante; entrambe lasciano il segno e fanno entrare a pieno diritto questo spettacolo indimenticabile nella storia dell’interpretazione di Chovanščina.
Foto Brescia & Amisano.
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