Orfeo è uno di noi
Robert Carsen firma uno splendido allestimento di Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro dell’Opera di Roma, con protagonista il controtenore Carlo Vistoli
Orfeo ed Euridice di Gluck mancava da molti anni dal Teatro dell’Opera di Roma. L’ultima rappresentazione risaliva al dicembre del 1968, ma nella versione affidata a voce di tenore, che all’epoca fu Lajos Kozma. Prima ancora, nei panni di Orfeo, cantò Fedora Barbieri, nel 1957, ed Ebe Stignani nel 1951, quindi due mezzosoprani.
Oggi, nel nuovo allestimento di Robert Carsen, in coproduzione col Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles e Canadian Opera Company, l’opera finalmente approda a Roma nella versione più pura, quella che a Vienna, nel 1762, segnò la grande rivoluzione del melodramma con la riforma gluckiana, che gli diede nuovo volto pulendolo dagli eccessi belcantistici dell’opera seria settecentesca di matrice metastasiana e dai suoi artifici retorici, riconducendo il dramma per musica ad una idealità drammatica modellata sulla tragedia greca, dove la musica diventa serva della parola (“Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l’espressione e per le situazioni della favola, senza interrompere l’azione con inutili, superflui ornamenti”, così si legge nella prefazione di Alceste nel 1767, manifesto della riforma gluckiana), con una stretta connessione fra testo e musica. È quello che spesso abbiamo letto e riletto sui lessici della storia dell’opera e che il dotto saggio di Paolo Gallarati ribadisce, con la chiarezza che gli è propria, nel programma di sala. Questo nuovo melodramma potrebbe avere già alcuni sentori di sensibilità preromantica, ma Gluck è ancora un illuminista e la sua riforma si declina nell’ambito della cultura razionalista, con richiami evidenti al neoclassicismo, lontana quindi dall’accettar quei brividi Sturm und drang che sembrano farsi strada nella discesa agli Inferi di Orfeo, quando il protagonista sfida le Furie.
C’è di più. Il semidio Orfeo venne per la prima volta interpretato da un cantore evirato, Gaetano Guadagni, non in antitesi, come sarebbe dato pensare, con le tesi riformiste sopra citate, bensì quale simbolo del personaggio che interpreta: non eroe del mito, dai poteri soprannaturali che gli sono dati dalla musica e dal suo strumento musicale, la lira (che per altro nel libretto di Ranieri de’ Calzabigi non viene mai citato), bensì uomo che per amore sfida il proprio destino, pronto a sacrificare tutto per esso.
Questo è il nucleo centrale al quale si ispira il magnifico allestimento di Robert Carsen, che gioca di pulizia visiva, facendo di Orfeo un essere normale – “uno di noi” afferma il regista – che nasce per amare e che per amore è pronto a morire pur di non perdere la sua Euridice. Amore e morte sono le componenti che contraddistinguono il nostro cammino sulla terra e Robert Carsen sembra voler declinare questi temi attraverso i lamenti di Orfeo, che sempre si duole, prima per la perdita della sua amata, poi per averla riconquistata senza poterla però guardare se non quando saranno entrambi ritornati dal mondo delle ombre. Alla fine soffre ancora dopo averla nuovamente persa per la mancata promessa di non guardarla in volto, fino a quando, per intervento di Amore, gli verrà restituita, facendo trionfare l’idea che la forza dell’amore vince su tutto, anche sull’esperienza della morte e sul trascorre del tempo che finisce inesorabilmente per separarci dalle persone più care determinando in noi il dolore per la loro assenza. Così facendo, Carsen, con scene e costumi di Tobias Hoheisel e luci di Carsen stesso e di Peter Van Praet, pensa ad una ambientazione neutra ed essenziale, senza tempo, universalmente valida nei suoi valori simbolici, che partono da componenti basiche quali la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Ed ecco una grigia e pietrosa distesa collinare, quasi lunare, elemento fisso di una scenografia con fondali che mutano di colore secondo i diversi climi dell’opera. Recipienti concavi con fiammelle di fuoco e con acqua sono gli unici elementi scenici a corredo di una impostazione registica che, come detto, va all’essenza intima del sentire espressivo dell’opera, cogliendone superbamente il messaggio attraverso una recitazione asciutta ma evocativa. I costumi sono moderni, neri per gli umani o bianchi per le Furie avvolte in candidi sudari, come a voler distinguere il mondo dei vivi da quello dei morti, pur nella dialettica che li mette continuamente a reciproco confronto. Lo spettacolo è un capolavoro di pulizia visiva, astratto ma così forte nella sua valenza tragica da inchiodare lo spettatore alla sedia per l’intera durata dello spettacolo, proposto di seguito, senza intervalli.
Anche l’esecuzione musicale riserva belle sorprese. Gianluca Capuano non commette l’errore di “barocchizzare” l’opera – per altro non dirige con un ensemble di strumenti originali, ma con l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma e con il Coro del teatro stesso, istruito da Roberto Gabbiani, che offre una prova eccellente (l’importanza assuma in quest’opera dalla componente corale è ben nota) – né di “romanticizzarla” accentuandone le sonorità. Trova un equilibrio narrativo perfetto, attento nell’evidenziare le finezze strumentali di una partitura che sostiene le volute del canto declamato, valorizzando la compostezza fascinosa e la forza espressiva della drammaturgia gluckiana con sonorità spaziose ma delicate.
Ad avvantaggiarsene è la compagnia di canto, nella quale spicca la prova del giovane Carlo Vistoli, che insieme a Raffaele Pe e a Filippo Mineccia forma la triade di controtenori attraverso i quali anche l’Italia può finalmente esprimere elementi di alto valore in questo registro vocale, dopo l’innegabile e da sempre dominante supremazia delle scuole controtenorili europee e statunitensi. Il corso delle cose sta forse cambiando? Alla luce di prove come questa è da ritenersi di sì. Vistoli si cimenta in una parte che può presentare diversi problemi ad una voce di controtenore (infatti non sono molti che l’hanno eseguita e la eseguono oggi), perché insiste su una tessitura medio-grave, che nel medium richiede polpa sonora consistente oltre che adatta a sostenere una declamazione che a tratti si fa eloquente pur non perdendo mai il controllo levigato della linea. Sentirlo è una gioia. Non c’è una nota che sia forzata, l’emissione è sempre pulita, lineare, naturale ed elegante; il suono pastoso e caldo nei centri, morbido quanto occorre (il timbro è per di più assai prezioso), capace di vibrare bene in platea, senza invaderla prepotentemente, ma neanche faticando ad imporsi. Quanto detto può già considerarsi una gran vittoria per un controtenore alle prese con questo ruolo. Va aggiunto che Vistoli si disimpegna con onore nel confronto con le Furie, in “Deh! placatevi con me”, ma è nell’incanto rasserenante dell’osservazione dei cieli e della natura dei Campi Elisi (“Che puro ciel!”) e poi nel celeberrima aria “Che farò senza Euridice?”, quest’ultima intonata con seducente lindore malinconico, dove le doti del cantante stilisticamente preparato ed espressivamente persuasivo giocano al meglio, senza dimenticare un duetto con Euridice dove emergono anche le sue doti attoriali non comuni, a favore di un Orfeo umanamente fragile e delicatissimo. Una prova davvero ragguardevole.
Mariangela Sicilia è una Euridice che per timbro e freschezza vocale si sposa bene alla voce di Vistoli, mentre Emöke Baráth, Amore, seppur discreta è qua e là un po’ stridula in acuto.
Applausi e convinti festeggiamenti finali per tutti gli interpreti da parte di un pubblico numeroso, che vedeva la presenza in sala di diversi nomi illustri, della politica, del cinema e della musica. Un po’ di mondanità, ma senza eccessi, nel segno della medesima sobrietà proposta da questo bellissimo spettacolo.
Foto di Fabrizio Sansoni
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