Sobrietà, solidarietà e forze sociali

Le polemiche scatenate intorno all’ultimo Discorso alla città (costruite a priori ed a prescindere, come spiega in un altro articolo il bravissimo Fabio Pizzul) si sono ritorte contro quei pochi che le hanno fomentate, mentre rimane nella sua grandezza di visione il messaggio del cardinal Dionigi Tettamanzi. L’Arcivescovo ha richiamato tutta la società e le istituzioni a farsi carico dei problemi della città, acutizzati dalla crisi. Egli indica a tutti la via dell’assunzione di responsabilità. E per farci divenire compartecipi di un percorso comune, la solidarietà, resa possibile e credibile da scelte di sobrietà, deve innervare la vita civile in modo da «animare il corso delle istituzioni».

Credo che si debba compiere uno sforzo ulteriore per misurarci e lasciarci interrogare da questo Discorso alla città, dal suo messaggio profondo ed esigente, dialogico ma severo.

Un Discorso che contiene ripetuti appelli volti a superare i troppi egoismi che impediscono di farci responsabili e solidali. Tra questi appelli vi è il richiamo alla Costituzione, ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Per la città ciò si traduce nella proposta di una “alleanza per la solidarietà ” (come sottolinea l’ottimo articolo di Lorenzo Gaiani), concepita come «incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile».

Anche la società civile è chiamata in causa, e dunque pure l’associazionismo cattolico non può tirarsi indietro di fronte alle esigenze della solidarietà. Il Discorso dell’Arcivescovo interpella anche noi, le realtà della società civile che rappresentiamo: in che misura siamo aperti alla solidarietà e pratichiamo la sobrietà? L’esempio, l’agire coerente precede la credibilità delle parole: ce lo ha insegnato l’Arcivescovo anche con l’istituzione del Fondo Famiglia Lavoro per chi è in difficoltà a causa della crisi.

Mi pare, quindi, che dal Discorso alla città si possa trarre una lezione anche per l’associazionismo, che deve sempre riscoprire le ragioni del suo servizio alla città e alla società. Altrimenti si corre il rischio dell’autoreferenzialità, di una inadeguata rappresentanza dei propri associati, di una sterilità nel dare il proprio contributo specifico al “bene comune”.

Credo che le forze sociali debbano evitare un duplice errore. Da un lato c’è il pericolo di cadere, come ha osservato uno dei più lucidi e disincantati osservatori della società italiana, Gian Enrico Rusconi, in un «lamento continuo da parte di tutti i gruppi più o meno organizzati, in una società che tira avanti con alti e bassi, aspettandosi dalla politica soltanto aiuti particolari, facilitazioni, deroghe anziché un disegno complessivo di carattere generale»1. Non si possono riversare tutte le colpe sui partiti (per quanto deficitari di idee e di programmi possano essere) se poi manca quel retroterra sociale e culturale che fa da incubatrice all’elaborazione politica.

Dall’altro lato, succede anche che, nei pochi casi in cui non ci si limita a rivendicazioni settoriali (pur legittime ed importanti nella loro giusta misura), sia invalsa una tendenza ad arrogarsi una rappresentanza generale quantomeno dubbia. Si finisce per parlare a nome di interi gruppi sociali, di dare pareri che non sono richiesti, di compiere “sconfinamenti” dettati da un effimero senso di protagonismo, di far valere il peso della propria organizzazione, di qualunque tipo, a scapito di quanti non sono inseriti in alcuna “rete”. Neanche questo è il contributo che ci si aspetterebbe dalla società civile.

La sfida è piuttosto quella di tirar fuori, ciascuno dal proprio ambito, quegli elementi, quei problemi, quelle idee e proposte che rischierebbero di rimanere nascosti al dibattito politico al fine di contribuire alle politiche generali in modo proprio e di rendere il futuro della nostra città (e del Paese) più a misura delle persone che la abitano e che la vivono. Soprattutto i gruppi dirigenti delle associazioni sociali, sindacali, di categoria, di volontariato, ecc. non possono eludere il dovere di una onesta rappresentanza di problemi e di interessi in un quadro di valori orientato alla libertà e alla solidarietà. Altrimenti il rischio è quello di non essere più capaci di leggere fenomeni macroscopici che avvengono attorno a noi e fra di noi e tantomeno di dare risposte di solidarietà. É stato così per le cause della crisi economica e finanziaria, cause in azione nella società da almeno un paio di decenni, su cui però non si è riusciti a prestare la dovuta attenzione prima dell’attuale tracollo.

L’aspetto più preoccupante, a mio avviso, è il seguente. Se dalla società, “dal basso”, dalla base devono arrivare le energie per rinnovare la politica, come può accadere questo allorquando le forze sociali preferiscono seguire le mode, allinearsi sulle posizioni dominanti (che non sono mai quelle della maggioranza dei cittadini, ma quelle espresse da chi ha più risorse per farsi sentire), aderire a campagne concepite in chissà quali ambienti per scopi che a volte si fatica persino ad individuare? Spesso da parte nostra manca una più convinta assunzione di responsabilità, la capacità di definire le strategie rispetto ad una visione di società solidale.

Le forze che agiscono nella società, tra cui quelle di orientamento cattolico, potranno valorizzare al meglio quanto stanno facendo, volgendolo al rinnovamento della politica col criterio della solidarietà, se saranno capaci anche di una lettura di tutte quelle contraddizioni che emergono dalle loro attività concrete a contatto con cittadini, anche, e soprattutto, quando questo può portare nuova linfa ed aprire nuovi orizzonti al dibattito politico.


1 Gian Enrico Rusconi, La finzione della società civile, La Stampa, 4 dicembre 2009.

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